Ovvio che, se questo è un atteggiamento diffuso, diventa ben difficile affrontare i problemi veri, quelli di cui realmente ci si dovrebbe lamentare, perché vengono sepolti sotto una sfilza di altre questioni minori, finiscono in un gran calderone perdendo ogni peso e vigore. Come la favola “Al lupo! Al lupo!” di Esopo insegna, a furia di lamentarsi per un nonnulla si rischia che le lamentazioni serie non vengano prese in considerazione.
Tra tutti i problemi della recente crisi economica, quello che a me sembra più serio riguarda la disoccupazione giovanile: abbiamo orde di ventenni e trentenni a casa o impiegati male – nel senso che hanno contratti molto brevi e precari – e questa è indubbiamente una situazione che toglie prospettive, sicurezze, possibilità. È un problema perché questi giovani continuano a invecchiare senza aver messo in cantiere non dico un posto fisso ma nemmeno un lavoro vagamente stabile; perché non riescono a mettere soldi da parte pur sapendo che non avranno quasi nulla di pensione; perché non sono tutelati, non possono permettersi di sposarsi, far figli, ammalarsi, andare in vacanza, se non facendosi il mazzo, supplicando pietà, rimettendoci la paga e nei casi più estremi anche il lavoro.
Tutte queste sono cose che sappiamo fin troppo bene, e che sono note sia ai giovani (gruppo di cui io ormai praticamente non faccio più parte), sia ai “vecchi”. Ma quanto se ne parla, oggi? Ben poco. L’argomento è stato al centro del dibattito, brevemente, qualche settimana fa, quando sono usciti i dati sulla disoccupazione in Europa, dati spaventosi visto che nel nostro paese si sono toccate percentuali da primo dopoguerra, ma oggi ce ne siamo già dimenticati. I problemi della campagna elettorale sono infatti altri: l’IMU prima di tutto, cioè una tassa pagata da chi è proprietario di un immobile (e quindi, a priori, ha quantomeno una casa); e poi le tasse, le pensioni, il futuro Capo di Stato, i poteri del governo, Silvio Berlusconi, la legge elettorale e così via. Ancora una volta, non si capisce quali siano i problemi veri, quelli seri, quelli da affrontare subito: ci si preoccupa del fatto che i sessantenni dovranno andare in pensione a 70 anni, non badando al fatto che molti sessantenni sono più arzilli e in forma di me e che la speranza di vita non è più quella di quarant’anni fa; si vuole abbassare il carico fiscale che – ed è vero – è particolarmente gravoso, ma non si parla della sanità il cui peso economico è ben oltre il livello di guardia, non si parla della scuola impoverita, non si parla, e mi spiace ripetermi, del fatto che non ci sia lavoro. I miei studenti escono dalle superiori e, se non vanno a fare l’università (rimandando così l’entrata nel mondo del lavoro), si baciano i gomiti se riescono a trovare lavoro in un supermercato. E sto parlando degli studenti in gamba, non di quelli che tirano a campare. Queste sono le prospettive.
E allora a me pare che questa – non la mia, che tutto sommato si è in parte salvata, ma quella che sta venendo su ora – sia proprio una generazione perduta. Non nel senso della “Lost generation” letteraria di Fitzgerald e Hemingway – qui per fortuna nessuna guerra è venuta a strapparci dal nostro borghese e tranquillo stile di vita – ma nel senso di una generazione che non è riuscita a mettere radici, a entrare di diritto nella vita collettività, a trovare il proprio spazio nel mondo degli adulti. Ci si lamenta sempre di questa fantomatica “sindrome di Peter Pan”, secondo cui gli italiani, “mammoni” per definizione, non vorrebbero mai crescere; ma ormai mi sembra, al di là dell’essere “choosy” o “bamboccioni” come amano definirci i vecchi ministri, che sia lo stesso mondo degli adulti che fa di tutto per farci rimanere giovani a tempo indeterminato.
ps.: nel frattempo prosegue il concorso a cattedre indetto dal ministro Profumo. Un concorso di cui nessuno – neppure chi lo sta facendo – ha capito il senso, visto che costa parecchio e non è altro che un doppione di altri meccanismi di selezione già presenti, come i TFA o le graduatorie a esaurimento. Ci sono pochi posti e per quei pochi posti devi pure fare infiniti tentativi per provare ad accaparrarteli, esattamente come quando la burocrazia ti manda continuamente da un ufficio all’altro per un documento: e lo scopo, si sa, è quello di farti desistere, di farti rinunciare. L’unica spiegazione è questa: i concorsi annuali di Profumo sono un tentativo di convincere i precari a cambiare lavoro. Insomma, se non ti perdi da solo ti fanno perdere loro.