Come il cinema e la tv hanno ucciso Proust (e i suoi epigoni)

C
[dropcap] N [/dropcap]on ho mai sopportato le lunghe descrizioni nei libri; non perché mi diano propriamente fastidio, ma perché mi annoiano, mi stufano, mi sembrano pagine rubate al normale svolgimento della trama.
Quand’ero più giovane, questa idiosincrasia mia e di tanti miei coetanei veniva spesso stigmatizzata dagli adulti, fossero essi professori o genitori: le frasi più ricorrenti variavano dal “La vostra generazione non vuole mai aspettare, è impaziente e non sa godersi qualche pagina di disinteressata contemplazione” al “La lingua si esprime meglio proprio nelle descrizioni degli ambienti, ma che ne capite voi, che non sapete apprezzare più nulla”. E quindi, dando inconsciamente loro ragione, sono cresciuto con l’idea che ciò che non è descrittivo e ciò che riguarda direttamente la trama (o, peggio ancora, i colpi di scena) siano le parti più povere e più furbe di un libro; anzi, peggio ancora: un libro senza noiose descrizioni dev’essere per forza un libro da poco, per le masse, superficiale. In fondo, tutti o quasi i grandi letterati che si studiano e si leggono a scuola sono famosi per le loro infinte descrizioni, Manzoni e Leopardi su tutti; e quando si incontra un narratore che va dritto al sodo, come ad esempio uno Svevo, lo si guarda con sospetto, quasi fosse un autore minore messo là giusto per avere qualcosa da contrapporre a Joyce.
Nonostante tutti questi preconcetti che mi sono stati introiettati dagli adulti, le parti descrittive continuano ad annoiarmi. La minuta presentazione della madeleine intinta nel tè di Proust, dell’abbazia di Eco, del ramo del lago di Como di Manzoni e molte altre pagine della letteratura dell’Ottocento e del Novecento continuano a dirmi poco, per quanto abbia studiato e per quanto – lo giuro – ci abbia provato con tutta la forza di volontà a farmele piacere.

Ciò di cui mi sono forse ora reso conto – proprio in queste settimane in cui sto leggendo Dalla parte di Swann – è però che il problema in realtà è mal posto: non è che, come dicevano gli adulti di un tempo, siamo superficiali e poco disponibili al sacrificio; è che, piuttosto, siamo troppo bravi a immaginare.
Io non trovo ridondanti Proust, Stendhal e Dostoevskij per pigrizia o noia, ma perché per la sensibilità della mia generazione questi grandi autori sono effettivamente ridondanti. Che bisogno c’è di descrivere ogni singolo mattone della chiesa di Combray quando basta evocarla e subito nella mia immaginazione si formano le linee di centinaia di chiese simili che ho visitato di persona, che ho visto nei film, di cui ho letto nei libri di storia?
Il problema, detto in altri termini, non siamo noi lettori di oggi; il problema sono i lettori di ieri. Io e la mia generazione siamo cresciuti a pane e immagini: abbiamo visto migliaia di film, milioni di ore di televisione (con documentari, ricostruzioni storiche, sceneggiati, serial), migliaia di fotografie e gallerie fotografie sul web e sui libri di testo, migliaia di pagine di fumetti. Si parla di un’abbazia medievale e immediatamente ce la immaginiamo, perché l’abbiamo già vista molte volte. I nostri nonni no, per loro era tutto nuovo: leggere le descrizioni del mare in tempesta o dei vicoli di Londra era per loro un’esigenza, una necessità, non avendo mai visto né l’uno né gli altri, né dal vivo né in fotografia. Noi, al contrario, siamo talmente figli del video che non abbiamo più bisogno della parola, o almeno istintivamente sentiamo di non averne bisogno.

E forse, l’effetto principale di tutto questo è che abbiamo perso di vista il particolare, il dettaglio: col fatto che riusciamo a immaginare tutto, ogni ambiente ed ogni situazione, ciò che ci sfugge dalle mani è la virgola, la differenza specifica. Per immaginare un edificio ottocentesco ci bastano due accenni, ma ciò che visualizziamo è un edificio banale, scontato, già visto in qualche sceneggiato tv; un edificio, insomma, tipico, in cui mancano tutte quelle particolarità che avremmo sicuramente trovato in una descrizione vecchio stile. La nostra immaginazione ci permette di ricreare nella mente qualsiasi ambiente, dai ghiacci del Polo di London alle foreste tropicali di Salgari, dalle macchine fantascientifiche di Verne ai robot di Asimov; ma, accontentandosi semplicemente di rielaborare quanto già conosciamo, impoverisce le nostre esperienze, banalizza l’immagine stessa, rimesta sempre nel già visto.
In ogni caso, quest’evoluzione, questo sempre più netto dominio dell’immaginazione visiva sulla descrizione, mi pare un cambiamento ormai irrefrenabile e inevitabile, con i suoi pregi e i suoi difetti; e non è detto che sia poi del tutto un male, visto che questo surplus descrittivo, a ben guardare, è tipico del diciannovesimo e della prima metà del ventesimo secolo, e quindi di un modo di guardare al mondo tipicamente borghese, il mondo cioè come una realtà oggettiva da conoscere e conquistare. Oggi tutto è già noto, tutto è già conquistato: inevitabile che questo si rifletta anche nei gusti dei lettori.

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