Tre giorni fa è purtroppo venuta a mancare la celebre attrice Anita Ekberg, icona degli anni ’60 grazie soprattutto all’interpretazione di Sylvia ne La dolce vita di Federico Fellini. Ovviamente, ogni giornale ha pubblicato un ricordo della diva; a me, però, è venuta in mente una vecchia intervista che l’attrice mi concesse nell’ottobre del 2003, quando ero un ventiquattrenne giornalista neolaureato e lei si trovava nella mia città per ricevere un premio.
Ho così scartabellato nei miei archivi e recuperato il vecchio pezzo che scrissi allora, datato 24 ottobre 2003 ed uscito nell’edizione rodigina de Il Resto del Carlino. Mi pare, a distanza di anni, un articolo ancora interessante, e quindi lo ripropongo qui di seguito.
Anita Ekberg ha ricevuto ieri a Rovigo il “Gran Premio Cinema”
«La dolce vita non c’è più»
«Non sono una diva, non voglio essere chiamata diva. Sono soltanto un’attrice». Così si presenta Anita Ekberg, una donna che è ormai un mito nell’immaginario collettivo degli italiani. Ieri era a Rovigo in occasione della proiezione di La dolce vita, film Palma d’oro a Cannes nel 1960, presentato all’interno della rassegna dedicata a Federico Fellini a dieci anni dalla sua scomparsa. Arrivata l’altra sera, la star svedese ha dormito all’hotel Villa Regina Margherita; poi un breve incontro nel pomeriggio con i giornalisti e, in serata, la presentazione della pellicola e la consegna del “Gran Premio Cinema città di Rovigo” da parte degli organizzatori dell’evento (Provincia, Coni e Gruppo culturale 80, rappresentati dall’assessore Giuseppe Osti e da Alessia Pozzato).
E chi meglio della donna felliniana per eccellenza può parlare di Fellini? «L’ho conosciuto a Roma – racconta –: aveva chiesto lui d’incontrarmi ma io proprio non sapevo chi fosse. A quel tempo aveva già vinto un Oscar con La strada, ma in America era uscito solo in sale minori e io ero andata a vederlo con Gary Cooper solo perché nel cast c’era Anthony Queen. Comunque – continua, in un italiano allenato dai molti anni passati nel nostro paese – io allora ero già famosa in America, avevo lavorato con registi come King Vidor e William Wellman… Insomma, non è vero, come dite voi italiani, che Fellini mi ha scoperta, mi ha fatta diventare famosa: diciamo invece che io ho fatto diventare famoso, almeno internazionalmente, Fellini».
Com’era lavorare con lui? «Era un regista molto esigente con tutti tranne che con me. Ci bastava guardarci negli occhi e ci capivamo al volo. Non mi ha mai dato un copione de La dolce vita, i dialoghi li inventavamo sul momento, insieme. È anche per questo che mi manca molto. Prima di morire stava anche progettando degli altri film insieme oltre ai quattro che abbiamo fatto».
La scena della fontana di Trevi è sicuramente una delle più famose della storia del cinema, tanto che ancora oggi la si ritrova con frequenza in pubblicità di vario genere: «Quella scena la girammo in gennaio – racconta, disponibile e divertita, Anita Ekberg – e c’era, come dite voi in Italia, un freddo boia. Ma devo svelare un particolare interessante: l’idea del bagno nella fontana Fellini l’ha tratta proprio da una mia disavventura. L’estate dell’anno precedente, infatti, ero entrata nella fontana per il troppo caldo, e mi ero anche tagliata un piede. Così l’abbiamo inserita nel film ma, come ho detto, la temperatura era allora ben diversa».
Cos’è cambiato tra la dolce vita del 1960 e quella di oggi? «Quella di oggi non è più una “dolce vita”, ma una vita amara. Allora, usciti dalla guerra, si era più allegri e insieme ci si rispettava di più. Oggi, invece, per quanto sembra a me, c’è più menefreghismo; domina un egoismo allucinante. Basta guardare il fenomeno dei bambini abbandonati, ma anche solo dei cani, animali che amo molto. E comunque, allora si era più spensierati, ci si godeva di più la vita. Per questo oggi secondo me la vita è più amara: alle feste non si può più nemmeno bere un goccio di vino, altrimenti ti fermano e ti tolgono i punti della patente. Ma l’uomo mediterraneo ha più vino che sangue nelle vene, ed è giusto che sia così!».
Progetti lavorativi? «Vorrei tanto fare ancora del cinema, ma tutti i copioni che mi propongono sono o troppo volgari, o troppo violenti: non ci sono più le belle storie d’amore di una volta. E c’è anche da dire che parti per donne sopra i 40 anni sono rarissime, quasi impossibili da trovare. Eppure nel mondo, di nonne, di zie, di madri ce ne sono così tante. Ma nel cinema c’è spazio solo per le venticinquenni, meglio ancora se pronte a spogliarsi».