[dropcap] N [/dropcap]on so per quale strano motivo siamo sempre abituati a pensare che i grandi artisti fossero persone positivamente fuori dal comune. Famosa è la citazione di Salinger secondo cui quando leggiamo un buon libro siamo immediatamente portati a desiderare di conoscerne l’autore, come se il fatto di scrivere bene fosse capacità propria solo di una persona intelligente, simpatica, affidabile. In realtà molto spesso gli artisti, gli scrittori e i filosofi sono persone poco raccomandabili: Hemingway era uno stronzo capace di tradire gli amici e le mogli a ogni piè sospinto, Fitzgerald e Pollock erano alcolizzati (per non parlare di Bukowski, che li batte tutti), Caravaggio un pluriomicida, Pound un fascista, Proust un maniaco ossessivo, Carroll probabilmente un pedofilo, Van Gogh e Tasso due pazzi, Leopardi uno sfigato, Schopenhauer un misogino, Kant un asociale. E potremmo andare avanti per ore.
Nonostante gli esempi si sprechino, continuiamo ancora oggi imperterriti a stimare e idolatrare – non come artisti ma proprio come persone tout court – gente di tal fatta, sicuri che la capacità di raccontare storie profonde o comunicare sentimenti intensi, di far ridere e pensare, implichi necessariamente che queste qualità (profondità, simpatia, moralità) siano già presenti nell’animo dell’autore. Purtroppo non è quasi mai così. Se questi autori non li avessimo conosciuti tramite le loro opere, ma avendoli come vicini di casa, li avremmo costantemente guardati storto, evitati, sicuri che prima o poi avrebbero traviato i nostri figli. E non, si badi bene, perché noi siamo dei borghesi banali che non sanno riconoscere la grandiosità dell’artista (leggenda messa in giro proprio dagli artisti stessi), ma perché semplicemente questi artisti sono oggettivamente dei tipacci.
Purtroppo mi sembra che questa nostra fiducia nella figura dell’artista non sia un fatto casuale o accidentale, ma dipenda dal generale ottimismo riguardo al ruolo che diamo alla cultura nello sviluppo dell’umanità: vogliamo a tutti costi credere, nonostante i fallimenti accumulati in molti secoli, che la conoscenza e lo studio rendano le persone migliori. Lo crediamo perché in fondo siamo socratici: riteniamo che il male, la cattiveria, la stupidità non dipendano mai veramente dall’uomo, ma piuttosto dalla sua ignoranza, dalle sfortune che gli sono capitate nella vita, dalla condizione sociale in cui si è trovato a crescere. Se fosse davvero così, però, avremmo nobili e ricchi educatissimi, onesti, buoni, generosi e disponibili, che trainano la nazione verso una sorte migliore; e invece abbiamo Berlusconi e Briatore (restando sul versante dei ricchi) o Sgarbi e la Fornero (passando sul versante della cultura e dello studio).
No, purtroppo la capacità dell’artista e del pensatore di creare qualcosa che sia destinato a rimanere nei secoli non c’entra nulla con una presunta superiorità o grandezza dell’individuo. Il talento è un dono che arriva completamente a caso, una capacità che talvolta si sviluppa con lo studio e l’esercizio ma in certe situazioni sorge proprio nella persona meno adatta e meno impegnata, e che comunque non ha niente a che vedere con la bellezza (se così vogliamo chiamarla) interiore. Anzi, casomai pare vero il contrario: è molto più frequente, a leggere le biografie dei vari artisti, che questi personaggi si siano macchiati di colpe gravissime.
Ma allora, se la cultura e la conoscenza non ci rendono persone migliori, a cosa servono? Se non fanno crescere in noi una coscienza che ci renda capaci di collaborare positivamente col nostro prossimo, a che pro insistere tanto su di esse? Ecco, il punto è proprio questo: più passano gli anni, più mi rendo conto che il sapere, effettivamente, non serve a nulla. È un passatempo elegante e raffinato, ma pur sempre un passatempo. Certo, l’opera d’arte – che sia un libro o un quadro – ci può far capire qualcosa sul mondo, ci può aprire gli occhi sulla realtà; ma quello può farlo, se abbiamo la sensibilità giusta, anche una serata al bar: Joyce insegna che le epifanie si possono verificare nei luoghi più impensati. Non è l’opera d’arte che conta, è il modo in cui noi leggiamo l’opera d’arte che ci rende, in certi casi, migliori: è per questo che uno stesso libro può cambiare la vita a una persona e lasciare completamente indifferenti tutte le altre.
Se tutto questo è vero, allora perché fondare la scuola sullo studio delle varie forme di conoscenza (storica, artistica, scientifica)? Se il sapere non serve a renderci migliori, perché la scuola ci insegna proprio il sapere? Lo fa perché la scuola è figlia di un fallimento, perché non sa come fare a renderci brave persone, cittadini onesti, amanti fedeli, e quindi si accontenta di renderci almeno istruiti, che è sempre meglio di niente. È triste dirlo, ma credo sia così, e credo anche che sia proprio da questo che derivano tante frustrazioni della classe insegnante: noi non formiamo uomini o donne, formiamo cervelli. Che è tutta un’altra cosa.