Il capitolo alla Fabio Volo

Prende il via oggi, con questo post, un nuovo progetto, uno dei tanti a cui avevo pensato quest’estate e che sto pian piano facendo partire (uno, ad esempio, è la Storia della filosofia a fumetti). Si tratta, in particolare, di una sorta di “Esercizi di stile” in cui vorrei mimare e contemporaneamente prendere un po’ in giro lo stile e le storie di vari narratori, recenti e passati, italiani e stranieri, autori di best-seller commerciali e di classici immortali. Ovviamente non potevo che partire da Fabio Volo.

[dropcap] L [/dropcap]’aereo per Parigi è stracolmo di persone, come sempre. Tutti, sotto Natale, vogliono andare a passare qualche giorno nella città più romantica del mondo, amarsi nelle camere d’albergo, passeggiare sotto la pioggia, baciarsi alla francese. Tutte cose che si possono fare, uguali uguali, pure in Brianza, ma fatte a Parigi è tutta un’altra cosa.
Io, se posso, nella capitale francese ci vado ogni anno: trovo che l’aria parigina abbia un sapore particolare; e poi, se sono all’estero non sono costretto a fare i regali a tutto quell’esercito di nipotini che mi ritrovo. «Ma zio – mi chiedono invariabilmente la prima volta che mi autoinvito a cena a casa loro, a gennaio – Babbo Natale non è passato da te?». E io rispondo: «No, cari. Sapete che non ho il caminetto, e col fatto che ero all’estero ho dovuto mettere tutti i catenacci al portone per paura dei ladri. Mi dispiace, sarà per l’anno prossimo». E intanto ho già prenotato il volo per il dicembre successivo.
Una volta, a Parigi, c’ho pure inseguito una ragazza. L’avevo individuata in fila alle poste centrali di Bergamo e, appena l’avevo vista leccare un francobollo, me n’ero subito innamorato; sapete, uno di quegli amori romanticissimi che ti porta a fare le cose più insensate pur di arrivare a far sesso. Be’, la inseguii in terra francese, dove era andata per non so quale stupido motivo – credo per cercare un lavoro, o altre amenità del genere -, e dopo qualche giorno di pedinamenti la avvicinai in un bistrot. Le spiegai tutto, le aprii il mio cuore, le illustrai i miei sentimenti, la guardai dritto nelle pupille, le presi la mano e gliela accarezzai più volte e lei andò di corsa a denunciarmi alla polizia. Per sicurezza saltai un paio d’anni oltralpe, dirottando momentaneamente su altre mete.

Sull’aereo, oltre alle coppie di anziani che festeggiano un anniversario di matrimonio e alle coppiette innamoratissime, c’è pure qualche bella ragazza delusa dal fidanzato. Le riconosco subito, quelle in crisi di coppia, perché quando le fissi a lungo non mandano il loro uomo a menarti, ma preferiscono rivolgersi alle hostess. Fino a che a picchiarti è un energumeno di due metri va ancora bene, perché si può sempre sperare di impietosire un’altra tipa che non ha seguito bene la vicenda; ma se ti mena una hostess non c’è niente da fare, sei abbandonato al pubblico ludibrio. Per questo fisso sempre con una certa circospezione, in maniera enigmatica, perché da un lato rende più fascinosi e dall’altro puoi sempre dire, all’hostess che sta per menarti, che sei miope e mica stavi fissando per davvero.
D’altro canto, essere menato in fondo non è sempre un dramma, bisogna vedere il lato buono delle cose: a ortopedia, per dirne una, ci sono le infermiere più carine della città.

Me ne sto seduto e guardo fuori dal finestrino, cullato dalla musica del mio iPod dove ho caricato l’ultimo disco degli U2.
Me l’ha regalato mia nonna per Natale. Io nemmeno immaginavo che lei sapesse cos’era un iPod.
«Cosa vuoi, mi sono informata», mi ha spiegato.
«Per me? Ti sei informata per me? Che bella cosa».
«Certamente. Sai quando dicono che i giovani vivono nel loro mondo, si isolano dagli altri richiudedosi nei loro iPod? Ecco, tu non sei più tanto giovane, ma speravo ti richiudessi lo stesso».
«Ah, volevi che passassi più tempo con me stesso? Che dolce».
«No, volevo che passassi meno tempo con noi».

Mia nonna è una gran donna. Mi ha tirato su praticamente da sola, a suon di sganassoni e Ringo Boys. Spesso gli sberloni me li dava mentre stavo mangiando proprio i Ringo e allora finivo per sputare tutti i pezzi di biscotto insalivato sulle tende. E per questo mi beccavo altre sberle. Bei tempi.
Qualche settimana fa ne ho riparlato proprio con lei: «Sai, nonna, non capisco tutte queste coppie di oggi, che vogliono allevare i figli solo con le buone maniere, facendoli ragionare, trattandoli come se fossero degli adulti. Io penso che ogni tanto un po’ di severità, di divieti, se serve anche qualche sberla siano positive per il bambino. Prendi me: me le davi sempre e sono venuto fuori così bene…».
«Tu mi ricordi le corse in bicicletta che facevo da ragazzina».
«Ah sì? È una cosa molto toccante, nonna».
«Me le ricordi perché finivo sempre per andare a sbattere e farmi un gran male».
«Ma nonna: ogni muro è una porta».
«Dio, quanto sei cretino».
La nonna è piena di queste uscite che non sai che cazzo vogliono dire, però, dai, sono poetiche. Io me le segno su un mio quadernino anche se non le capisco, e poi dopo qualche mese le rileggo e piango, mi commuovo. Piango perché anche dopo mesi continuo a non capirle. Ma non mi arrendo.

Le hostess ci spiegano le manovre in caso di atterraggio di emergenza, disastro o quel che è. Io mi tocco i maroni e do di gomito al mio anziano vicino: «Ehi, lei non si tocca? Non tocca nemmeno ferro? Guardi che porta sfiga». Mi guarda perplesso. Forse è straniero. Allora sfodero il mio inglese che ho imparato facendo l’ascensorista al Grand Hotel di Bergamo alta: «Don’t you touch yourself? Don’t you touch iron? It brings… it brings…». Non mi ricordo più come si dice “sfiga” in inglese. Provo con “get”, che è l’equivalente di puffare per i Puffi e funziona sempre: «It brings get!». Non mi suona bene. Mi guardo intorno sorridente: «Dai, qualcuno mi aiuti, come si dice sfiga in inglese?». Tutti mi ignorano. È da queste piccole cose che capisci che la solidarietà umana ormai è tramontata e ci stiamo avviando verso tempi cupi.
Lascio perdere. Prendo una rivista e comincio a leggere. Alla terza riga di un articolo di economia mi viene il mal di testa. Giro qualche pagina e arrivo alla sezione di Costume e società: lì mi viene mal di testa alla riga sette. Arrivo agli spettacoli e resisto fino alla riga undici. Una volta con lo sport sono riuscito ad arrivare fino a riga ventisette, ma neppure quella volta riuscii a scoprire com’era finita la partita. Per questo sono d’accordo quando si dice che leggere è un’esperienza che ti cambia: io prima di leggere sto bene e dopo ho il mal di testa.

Ripongo la rivista e tiro fuori il mio libro di Philip Roth. Lo apro più o meno a metà, sfilando il segnalibro, e faccio in modo che la copertina sia ben visibile agli altri viaggiatori. In questi ultimi anni ho cuccato un casino con Roth, molto più che non con Don DeLillo, il cui charme sul pubblico femminile è decisamente sopravvalutato, checché ne dica il mio amico Jhonny con l’acca nel posto sbagliato, che grazie a DeLillo sostiene di essersi trombato molte ragazze di sinistra; più di tutti, però, per esperienza personale devo dire che tira un casino Saramago, anche perché puoi parlarne in termini vaghissimi e nessuno si accorge mai che non l’hai letto.

Avrò girato due o tre volte la pagina, alternando facce di sorpresa ad altre di profonda concentrazione (sono facili da fare: basta cercare di ricordare il PIN del proprio bancomat e subito ti compaiono sulla fronte, in maniera del tutto naturale, le rughe tipiche di chi sta riflettendo sul mondo) quando vedo passarmi di fianco una ragazza bellissima, alta, bionda, sofisticata. Appena supera il mio sedile mi lascio sfuggire, sottovoce, un “Dio, quanto ti toccherei”, seguito subito, per giustificarmi col mio vicino di posto straniero, da un “ma solo con un fiore, ovvio”. Mentre passava ho notato che ha dato un’occhiata alla copertina del libro. Se sono fortunato conosce Roth.
Si siede due file oltre la mia e sembra essere da sola. Mi sporgo un po’, come se non trovassi una posizione comoda per leggere, per cercare di osservarla meglio. Tiene sulle ginocchia un grande quaderno ad anelli, come quelli che si usavano un tempo a scuola – e in effetti, facendo più attenzione in copertina si scorgono le Winx – e scrive. Sono sicuro che stia prendendo appunti su di me con una calligrafia minutissima, precisa ma insieme raffinata e dolce. O quello, oppure sta facendo i compiti di matematica: non riesco a capire esattamente che età abbia.
Per attirare la sua attenzione do qualche colpo di tosse e recito un “Ah, Philip Roth, che genio! Che genio!”. Mi guarda, come mi guardano tutti, e poi si rimette subito a scrivere. Forse – ne sono sempre più convinto – si sta preparando delle domande, questioni letterarie da dipanare non appena scesi dall’aereo, davanti a una baguette, a del buon vino e a qualche formaggio, che degusteremo con in testa un basco e addosso una maglietta a righe orizzontali.
D’altronde io, modestia a parte, di letteratura me ne intendo, soprattutto da quando ho scoperto che su Wikipedia si trovano i riassunti di più o meno tutti i classici.

Ora i nostri sguardi si incrociano spesso e comincio a prendere coraggio. Se non fosse interessata, mi avrebbe già mandato contro il fidanzato o la hostess (ce n’è una con un bicipite da paura, memore dei miei trascorsi l’ho notata subito). Io sollevo gli occhi dalla mia copia di “Pastorale americana” dopo ogni capoverso, in modo da dimenticare in fretta le parole che senza volere mi capita di leggere, e fisso la mia bella bionda fino a che non risponde al mio sguardo. A quel punto ammicco, sfodero lo sguardo intenso delle grandi occasioni, quello che nel ’91, in terza media, mi permise di toccare le tette a Deborah con l’acca al posto giusto (certo, fui l’ultimo della classe a raggiungere tale traguardo, ma con la scusa che ero bassino e avevo le mani piccole potei farlo a due mani, mentre tutti gli altri si erano limitati a un sola).
Sulle prime l’occhiata da killer non sortisce gli effetti sperati, perché lei riabbassa rapida gli occhi sul suo quadernone delle Winx; alla lunga però anche lei si fa più ammiccante, rimane sempre più a lungo con gli occhi puntati su di me.

Capisco che è il momento di agire: il volo per Parigi dura poco, e magari all’aeroporto ci sarà qualcuno ad attenderla. Bisogna concludere qui, sull’aereo, finché ne abbiamo l’occasione. Ho anche pronta la frase da rifilarle: «Sarà un amore fuggevole, come fuggevole è la vita. Un soffio, un istante: lo si afferra ed è già volato via». Sono un mago nel farmela dare.
Il problema è: come fare? E soprattutto dove? L’unica possibilità è la toilette: non dev’essere comodissimo, ma c’è tutto un fiorire di leggende sul sesso ad alta quota e, chissà, può darsi che un’idea del genere le possa togliere anche parecchie inibizioni. Vale la pena di tentare.
Rialzo gli occhi dal libro e li fisso sulla prescelta; dopo pochi secondi, come se sentisse il mio sguardo, lei alza i suoi e torna a fissarmi. Io muovo rapidamente gli occhi, sempre più lascivo, da lei al bagno, da lei al bagno e poi di nuovo, ancora, da lei al bagno. Le strizzo pure l’occhio.
Lei qualcosa deve aver intuito, perché prima guarda verso il bagno e poi, visibilmente imbarazzata, torna a immergersi nelle pagine del suo quadernone.
«Bene – dico tra me e me – è timida, è ancora inibita. Non l’avrà mai fatto in aereo, né tantomeno con uno sconosciuto».
Senza rendermene conto faccio sì col capo, compiaciuto per la reticenza della mia futura partner, e probabilmente un po’ sghignazzo, tanto che il mio vicino, l’anziano che pensavo straniero, mi fa: «Che ha? Si sente male?».
«Io? No, no, tutto ok».
«Aveva una faccia… Pareva stesse avendo un infarto».
«Sto… sto bene, grazie. Ma lei non era americano?».
Non risponde nemmeno alla mia domanda, il vecchio. Be’, dai, almeno si era interessato alla mia salute.

Torno a girarmi verso la mia lei: ormai il tempo stringe e, se in quel bagno dobbiamo fare tutto quello che ho in mente, bisogna che ci diamo una mossa. Lei alza lo sguardo, io le faccio di nuovo cenno indirizzando il volto verso la toilette. Lei guarda in là, poi torna a guardare me e annuisce con la testa. Vittoria! È fatta! Ha deciso di cedere alle mie lusinghe, di concedersi a me, di donarsi anima e corpo; o, più volgarmente, di darmela.
Ripongo il romanzo, incurante di metterci un segnalibro (tanto lo piazzo sempre a casaccio), e mi avvio con passo deciso in direzione del bagno, pronto a passare di fianco a lei e, chissà, a sfiorarle la mano. Mentre cammino lei mi fissa: chissà se, come me, sta già pregustando il momento in cui le toglierò il golf, le sfilerò la gonna, le farò saltare i bottoni della camicetta… Ecco, le sono a un passo, e lei non dissimula nulla, sembra non aver nessun timore di dare a vedere che i rumori che tra poco i passeggeri sentiranno saranno i nostri; anzi, addirittura si sporge, fa come per parlarmi.
E, infine, parla: «Guardi, adesso è libero, vede? Ho visto che lo controllava con urgenza…».
Rimango per un attimo interdetto: «Ah, sì… bene…». Poi mi avvio, mentre lei ricomincia a scrivere.
Probabilmente è una mente molto raffinata: ha trovato il modo per non destare nessun sospetto, per giustificare tutti gli sguardi che ci siamo scambiati durante il volo e che sicuramente gli altri passeggeri avranno notato.

Entro in bagno ma non chiudo a chiave: sono sicuro che entro pochi secondi lei entrerà qui con me, e ci ameremo appassionatamente.
Passa un minuto. Mi sembra logico, non può mica dare l’impressione di rincorrermi.
Passa un altro minuto. Forse ha avuto un contrattempo, forse il suo vicino di sedile le ha attaccato bottone e ora non riesce più a liberarsi.
Un minuto ancora. Certamente sta arrivando.
Un altro minuto. Provo a socchiudere la porta, per vedere se sta percorrendo il corridoio o se semplicemente sta cercando di comunicarmi qualcosa, un impedimento, un contrattempo: la vedo, là seduta a scrivere, imperterrita. Che abbia frainteso? Che abbia pensato che io dovessi realmente andare in bagno? No, non può essere: il mio sguardo non lasciava spazio a dubbi o tentennamenti. Deborah con l’acca al posto giusto, in prima media, non ne aveva avuti.
Decido di aspettare ulteriormente: devo avere fede. Non devo essere io quello che ha mollato, che ha rinunciato. Magari mi sta solo mettendo alla prova, forse è abituata a uomini tutti d’un pezzo e non vuole certo concedersi a un mollaccione che rinuncia alla prima difficoltà. Dev’essere per forza così. Anzi, per non farmi trovare impreparato e per dar prova che io, in lei, ho sempre creduto decido di iniziare a spogliarmi: così quando entrerà mi troverà nel massimo splendore dei miei muscoli tesi (e non solo dei muscoli).
Tolgo le scarpe, tolgo i pantaloni, tolgo giacca e camicia e, mentre mi chiedo se la canotta sia sexy oppure no, vedo che la maniglia si muove: lei è qui.

La porta si apre lentamente, in istanti che sembrano ore; sono talmente eccitato che per esserlo di più dovrei avere due peni. Cambio rapidamente tre diverse posizioni, cercando una posa abbastanza conturbante da inebriare istantaneamente i suoi sensi, e così passo dal leone ruggente al distinto gentleman, per poi optare alla fine per quella che io chiamo “la posa del ta-daah”, che consiste in braccia aperte come gesto d’accoglienza, boxer calati e appunto un bel “ta-daah”, pronunciato come a dire: “Benvenuta nel mio mondo”.

Purtroppo, se si vive una vita poetica e avventurosa come la mia, qualche inconveniente bisogna metterlo in conto: e il problema, come dico sempre, non è quanto aspetti, ma chi aspetti. Nel momento in cui la porta si spalanca, infatti, non mi ritrovo davanti la bella ragazza degli ammiccamenti, ma una obesa cinquantenne. Per un interminabile secondo rimaniamo immobili: io pietrificato da lei, lei da me. Io aspetto la sua reazione: di sicuro non era lei che aspettavo, ma se ora decidesse di rimanere in bagno con me, non le direi di no. Anche Deborah con l’acca al posto giusto, in fondo, aveva parecchi chili di troppo, e non mi sono mai pentito di quell’esperienza. D’altronde, chi non si ama può darsi a chiunque, come mi diceva sempre mia madre quando mi spiegava il suo lavoro.
Ma la cinquantenne è troppo inibita, troppa cultura e troppa educazione le annebbiano i sensi e quindi non riesce ad apprezzare il ben di Dio che si ritrova davanti e preferisce piuttosto cacciare un urlo terrificante, roba da far precipitare l’aereo nel bel mezzo della Francia.
Reagisco d’istinto, urlando più forte di lei: «Ma che è? Si entra così nei bagni occupati? Non si vergogna?».
«Ma se era occupato, perché non ha chiuso a chiave?», reagisce, schifata, la signora.
«Io avevo chiuso a chiave, è questa compagnia aerea che ha le serrature difettose!», improvviso, spingendola fuori e richiudendomi dentro.
«Sì, ma faccia in fretta, ché ho bisogno del bagno».

Mamma mia, che tensione. È chiaro che la bella scrittrice in erba non verrà più, ora che l’ingresso è presidiato dalla vecchia frigida. Che fare? Semplice: rivestirsi e uscire dal bagno, facendo l’offeso per quell’intromissione nella mia privacy. Però, ora che ci penso, tutto questo movimento mi ha creato un discreto subbuglio dentro, un trambusto intestinale (sarà stata la paura? lo stress?) e, prima di uscire, mi sa che dovrei proprio usare il water.
Mi calo definitivamente i boxer, mi siedo sulla tazza e immediatamente mi assalgono i dubbi: ma la cacca che si fa nel bagno dell’aereo, dove finisce? Viene buttata giù in volo e precipita sulle teste di qualche contadino ignaro? Se fosse così, mi sentirei molto in colpa perché avevo un trisavolo contadino e, non senza un certo sforzo, mi limiterei alla sola pipì (la mia è chiara e diluita perché bevo molta acqua, e un contadino può benissimo confonderla con qualche goccia di pioggia inattesa). Ma non è solo questo: se mi metto a far la popò farò una certa puzza, e chissà cosa dirà la donna che aspetta dietro la porta? E cosa riferirà alle hostess, agli altri passeggeri e magari pure alla mia agognata appassionata di letteratura nordamericana contemporanea? E se le pernacchie che mi metterò inevitabilmente a fare si sentissero in cabina? Con che faccia potrei tornare al mio sedile?
Per calmarmi ripeto una frase che per me è come un mantra, una frase pronunciata per primo da mio cugino Jhonny con l’acca al posto sbagliato e che risale all’epoca in cui faceva il panettiere: «Concediti un errore: lo spazio di un errore è uno spazio di crescita». La ripeteva ogni volta che si puliva le caccole con la farina per fare il pane.

In quattro e quattr’otto mi rialzo, senza aver fatto nulla, e comincio rapidamente a rivestirmi. Mi sento molto gonfio in pancia, ma spesso ciò che è meglio non è quello che fa stare bene, come diceva sempre mia nonna quelle volte in cui mi invitava ad andarmene di casa. Mentre l’aereo comincia le procedure d’atterraggio, penso che la farò poi, chissà dove, chissà quando: e in fondo la vita non è proprio questo? Una serie di imprevedibili cagate?

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