Karl Popper è stato uno dei filosofi più importanti del Novecento, anche se non sempre gli intellettuali italiani se ne sono resi conto: l’hanno acclamato quando andava di moda, l’hanno tranquillamente dimenticato quando non faceva tendenza. Di lui si ricordano soprattutto la dottrina della falsificabilità in campo scientifico e l’esaltazione della società aperta in campo politico.
Viennese di origini ebraiche, lasciò la natia Austria nel 1937, preoccupato per l’avvicinarsi minaccioso della Germania nazista, e si trasferì addirittura in Nuova Zelanda, dove rimase fino alla fine della guerra, nel 1946. A quel punto decise di tornare in Europa, stabilendosi però a Londra, dove divenne poi professore della prestigiosa London School of Economics. Proprio in Nuova Zelanda ho ambientato la mia nuova storiella per la serie sui filosofi.
Quello che i filosofi non dicono
(siamo così, dolcemente complicati)
Il complottista di Popper
«Le scie chimiche, professor Popper! Le scie chimiche!», continuavo a urlargli, mentre mi portavano via di peso.
Io, certi filosofi, non li capisco. Fanno tanto i moderni, i democratici, i teorici della società liberale… quelli che vogliono rivoluzionare il mondo, cambiare le carte in tavola, e poi, quando gli entri nell’ufficio con la verità su uno dei grandi misteri del nostro tempo, ti guardano strabuzzando gli occhi.
Ma io lo so, qual è il problema vero. È che sono solo un inserviente. Se fossi un professore come lui, col cavolo che chiamava la sicurezza. Mi sarebbe stato ad ascoltare, interessato, come faceva le prime volte quando ancora non sapeva quali erano le mie mansioni; magari avrebbe pure deciso di scriverci sopra un articolo per una di quelle riviste che leggono solo lui e i suoi quattro amici. Oppure addirittura un libro.
E invece adesso mi ritrovo qui, nel corridoio davanti all’ufficio del Preside di Facoltà, pronto per una ramanzina con i controfiocchi.