Thomas Hobbes, in vita, non doveva essere un gran simpaticone: alcune delle pagine che scrisse presentano la più pessimistica visione dell’uomo nell’intera storia di filosofia, visto che lo considerava ladro, infingardo e sleale, incapace di vivere in comunità se non sotto la minaccia costante di un potere terribile.
Anche la sua biografia ci presenta un uomo piuttosto bravo ad insegnare ai nobili a cui faceva da precettore, ma capace di litigare con tutti gli intellettuali d’Europa a suon di lettere, libri e polemiche a volte anche di bassa lega. Io ho provato a immaginare come dovevano vederlo i suoi vicini a Londra.
Quello che i filosofi non dicono
(siamo così, dolcemente complicati)
Il vicino di Hobbes
L’erba del vicino è sempre la più verde, dicono. Sarà, ma l’erba del mio, di vicino, è francamente impresentabile, un’onta per tutto il nostro bel popolo inglese che invece in fatto di prati primeggia in Europa.
E non è nemmeno solo questione del prato: è proprio il vicino che è impresentabile. Ogni mattina esce guardingo da quel portoncino, guardandosi perennemente in giro, come se temesse di venire aggredito da un ladro appena richiuso il cancello della sua proprietà; credo anche che sotto a quel suo pastrano porti una qualche arma, un bastone o qualcosa del genere, perché una volta, tornando a casa di sera, l’ho sorpreso a inseguire un gatto randagio urlando: «Homo homini lupus, e figuriamoci feli!».
[continua su Le Meraviglie]