So che le analisi sociologiche fatte “a spanne” lasciano il tempo che trovano, ma a me pare che uno dei limiti dell’Italia di oggi sia la netta separazione tra classi intellettuali e classi imprenditoriali (di alto ma anche di basso livello). Due mondi che non solo non si mescolano, ma neppure si parlano. E così abbiamo imprenditori ignoranti (e a volte anche orgogliosi di esserlo) e intellettuali che vivono fuori dal mondo; dirigenti che non hanno gli strumenti per comprendere la realtà e giornalisti, scrittori e insegnanti che quella realtà non vogliono a volte accettarla.
Da un lato, si esalta l’efficientismo scientifico, un neo-neopositivismo piuttosto superficiale in cui solo la tecnica ha ragion d’essere; dall’altro, si vive di classici e di filosofia ottocentesca, non riuscendo più a trovare il modo per far sì che questi elementi del passato possano cambiare la vita delle persone di oggi. E anzi, mi pare che i grandi progressi tecnologici finiscano per acuire il divario e mescolarlo con altri dualismi che permeano la nostra storia. In questa chiave può essere letta anche la questione della scelta universitaria e la polemica, di cui ho parlato anch’io qualche tempo fa, tra facoltà umanistiche e tecniche.
È chiaro che la contrapposizione tra chi pensa e chi fa non è nuova ed esisterà sempre, ma non sarebbe male avere – come li abbiamo avuti in passato, e come li hanno altri paesi – degli imprenditori intellettuali e qualche intellettuale imprenditore.