In morte di FriendFeed

Come forse saprete, nei giorni scorsi è stata annunciata la chiusura di FriendFeed. «Di cosa?», si starà chiedendo una buona percentuale di voi. Non vi biasimo: da molto tempo questo social network – che pure aveva avuto un suo periodo di gloria agli albori dell’era del web 2.0 – era un affare per pochi intimi, senza nessuna visibilità mediatica, senza app che ne favorissero la crescita (quelle esistenti erano vecchie e non più aggiornate), senza sostanzialmente nuovi utenti.

Eppure, in Italia sopravviveva una comunità di friendfeeders forse sparuta nei numeri, ma ben affiatata. Tra di loro, in un certo senso, c’ero anch’io.

Dico “in un certo senso” perché in realtà il mio coinvolgimento – come mi accade anche con altri social “minori” – era molto relativo. Postavo lì quello che postavo un po’ dappertutto, fedele alla mia regola non scritta che mi impone di propagare quello che mi passa per la mente sempre alla stessa maniera sui vari social, incurante delle specificità di ciascun sistema e delle sue caratteristiche, come se il pensare post diversi per social diversi fosse troppo impegnativo e rischiasse di farmi scoppiare la testa. A parte questo, su FriendFeed scrivevo pochino e interagivo altrettanto poco con gli altri. Probabilmente la maggior parte degli utenti della pur piccola comunità non ha la minima idea di chi io sia, confuso in quella selva di iscritti poco attivi.

Ma, e qui sta la particolarità, io FriendFeed lo leggevo molto. Direi anzi che negli ultimi due anni l’ho sicuramente letto più di Twitter, che a volte mi sembra diventato una sorta di piazza del mercato in cui si sente solo chi urla più forte. Dopo Facebook – dove entro per conoscere le novità delle persone che conosco e a cui sono affezionato –, FriendFeed era il social in cui mi recavo più spesso e, ancora più importante, leggevo con maggior attenzione. Il particolare modo in cui era strutturato, infatti, favoriva la nascita di vere e proprie conversazioni, confronti di idee, dibattiti e, perché no, anche di flame di cui si riusciva a seguire tutto l’evolversi.

Era, insomma, un Twitter in cui potevi tenere il filo del discorso (perché tutti i messaggi su uno stesso argomento erano raggruppati all’interno di un thread simile a quelli dei forum, anche se più stringato), in cui potevi leggere le opinioni di chi non conoscevi (cosa che invece su Facebook è possibile solo fino a un certo punto) senza peraltro l’assillo dei like ad ogni commento, dei retweet, di tutte quelle cose per alimentare l’ego (rapporto tra following e follower, numero di favs e così via) che hanno reso Twitter un posto in cui molti tendono a spararla grossa.

Per questo su FriendFeed perdevo interi quarti d’ora a leggere le vicissitudini del collega di un utente o della zia di un altro, la nuova discussione su Renzi o le recensioni del libro in testa alle classifiche, e lo riuscivo a fare con l’interesse e il divertimento che raramente, per un motivo o per l’altro, riuscivo a trovare in altri social. Anche perché quei pochi che erano rimasti su FriendFeed erano blogger, lettori, professori, utenti abituati a confrontarsi, a prendersi in giro, a usare quel mezzo: insomma, nonostante qualche inevitabile uscita infelice, era un social che valeva la pena leggere. Per tutti questi motivi, mi mancherà. E mi sembrava giusto dargli un ultimo saluto dedicandogli un post sul blog.

Un’ultima riflessione, prima di salutarvi: tutta questa faccenda mi ha portato a chiedermi se un’azienda abbia il diritto di chiudere un social network. Ovviamente ha il diritto legale di farlo, perché i server sono suoi e non si è presa nessun impegno con l’utenza, ma mi pare che non ne abbia il diritto morale: per anni ha sfruttato i contenuti offerti gratuitamente dagli utenti – senza, di fatto, crearne di propri – e si è arricchita grazie a questi contenuti e a questa comunità (non dimentichiamo che FriendFeed è stato venduto a Facebook per più di 47 milioni di dollari: certo, a Zuckerberg non interessavano gli utenti ma la tecnologia, ma quella tecnologia sarebbe mai stata notata da Facebook – e valutata così tanto – senza gli utenti?). Ora, se è vero tutto questo, chi ha le password del server ha davvero il diritto di staccare tutto? O ha anche una responsabilità morale nei confronti di chi l’ha aiutato ad arrivare fin lì?

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