A scuola la scrittura mi ha sempre dato una mano. Dalle elementari fino alla SSIS (la famigerata scuola di specializzazione per diventare insegnanti), la mia capacità di scrivere in un italiano sostanzialmente corretto e scorrevole mi ha sovente tirato fuori d’impaccio, salvandomi da situazioni anche piuttosto complicate. All’esame di letteratura italiana, all’università, mi abbuonarono la parte più corposa e difficile dell’interrogazione perché la mia prova scritta era stata una delle migliori; alla maturità il mio tema orientò positivamente la commissione verso il voto e permise loro di sorvolare su alcuni piccoli inciampi; ancora oggi la mia capacità di scrivere lettere chiare e ben organizzate è vista come un toccasana da chi mi sta intorno, che mi sfrutta per questo.
Queste mie capacità (che non sono in realtà niente di che, ma in un mondo di persone che fanno fatica a mettere in fila due frasi fanno comunque la loro figura) le ho sempre attribuite non alla conoscenza della grammatica – fino a quando non ho iniziato a studiare latino ero una frana sia in analisi logica che del periodo – quanto alle buone letture: in casa, da bambino, era pieno di libri, di giornali e di riviste, a cui io poi aggiungevo una miriade di fumetti, che, soprattutto nei primi tempi, mi aiutavano a scoprire parole nuove e a capire come si usava la punteggiatura.
Saper scrivere significa saper leggere
Se i nostri giovani hanno così tante difficoltà a esprimersi nello scritto è quindi secondo me anche colpa del fatto che leggono poco (o, in molti casi, non leggono proprio). Non voglio criminalizzarli: credo che loro siano le vittime, più che i carnefici, di questa situazione. Vittime dell’evoluzione dei mezzi di comunicazione; anzi, vittime della forza e del cannibalismo dei nuovi mezzi di comunicazione.
Sia chiaro: non ce l’ho con internet. Col web mi guadagno almeno in parte da vivere e sul web sto scrivendo anche ora. Però internet è proprio un cannibale, è inutile negarlo: appena cominciamo ad usarlo, ci toglie il tempo per tutte le altre cose. Basti pensare, banalmente, che quando andiamo in bagno ora non ci portiamo più la solita rivista o non prendiamo più in mano il libro che fino a qualche anno fa tenevamo appoggiato sulla vasca, ma ci portiamo il cellulare per guardare cosa si dice di nuovo sui social network.
Internet è pervasivo: è talmente grande che c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire; talmente sociale che c’è sempre una persona nuova da conoscere; talmente aggiornato che si è sempre sulla notizia. Fanno fatica gli adulti a resistere a questa “mania”, figuriamoci i ragazzini.
Ma il problema non è solo internet. Anche con la tv funziona ormai alla stessa maniera: i canali si sono moltiplicati, di sport se ne trova ad ogni ora, i cartoni animati vanno in onda non-stop 24 ore su 24, i talk show e i telegiornali si susseguono senza soluzione di sorta, i telefilm sono migliaia, fatti sempre meglio e in maniera sempre più appassionante.
Leggere è faticoso
Chi glielo fa fare, ai giovani, di spegnere tutto questo, prendere in mano un libro e mettersi a leggere?
Leggere è faticoso, non possiamo nasconderlo: richiede una certa concentrazione, uno sforzo mentale. Il web e la tv permettono diversi livelli di attenzione: si può seguire un programma per qualche minuto, poi distrarsi, poi addormentarsi, poi svegliarsi e riprendere il filo del discorso senza troppi problemi; si può anche guardare la tv facendo altre cose, come parlare con un familiare, scrivere sms o tweet, mangiare o fare ginnastica; questi mezzi di comunicazione hanno addirittura delle pause programmate – gli spazi pubblicitari – per non chiederci troppo in termini di attenzione. I libri no: quando si legge si può fare quello e solo quello, e lo si deve fare con attenzione, dalla prima all’ultima pagina. È un’attività esigente, la lettura. E proprio per questo non può essere affrontata a cuor leggero.
Davanti a un panorama del genere, davanti a rivali così agguerriti, a me pare che uno si metta a leggere solo in due casi: o perché conosce già i pregi della lettura (perché magari vi si è avvicinato in tempi passati, o perché vi è stato avviato da un parente o un amico), o perché vuole leggere, perché si sforza di resistere alle sirene degli altri mezzi di comunicazione ed è convinto che un po’ di fatica sia necessaria per raggiungere uno scopo importante.
Io, per quanto sia stato abituato a leggere fin da piccolo, credo di appartenere a questa seconda categoria: per me leggere è un sacrificio; un sacrificio a volte inutile, quando incontro un libro deludente, ma anche un sacrificio che vale la pena di fare, quando mi capita di veder ripagati i miei sforzi. In ogni caso, è un sacrificio che faccio perché voglio farlo: per leggere devo mettere da parte il cellulare e il computer, trovarmi degli incentivi, pormi delle sfide. Perché ci sono tanti libri che mi attirano e mi incuriosiscono, ma la curiosità dopo qualche pagina spesso si esaurisce, e non può rimanere sempre ad alti livelli (se non, forse, con certi generi particolari); perché leggere Proust è interessante, ma – e se ci avete provato lo sapete benissimo – a tratti anche mortalmente noioso. E lo stesso vale per quasi tutti i libri, anche più moderni e più leggeri della Recherche: belli e appassionanti finché volete, ma prima o poi arriva un momento in cui la tensione cala e il libro ci risulta improvvisamente tedioso e poco appetibile. Per andare avanti e finire – come in tutte le cose della vita, dal lavoro all’amore – serve uno sforzo di volontà.
E io come faccio a farmela venire, questa voglia, questa volontà? Nel corso degli anni, ho elaborato una sorta di metodo, che a qualcuno potrà apparire un po’ cervellotico ma che con me funziona bene. Sarebbe bello presentarvelo già ora, ma visto che vi ho intrattenuti per un bel pezzo con tutte le premesse del caso, direi che ve lo illustro la prossima volta, con più calma e con tutti gli esempi del caso. Nel frattempo, come dicono gli americani in tv – ma non sui libri –, stay tuned.