Un moderno insegnante di Class(e)

Avete comprato il numero di Class di ottobre 2016? No? Male. Per due motivi. Primo, perché in copertina c’è scritto “W la scuola digitale per i nostri figli”, e tutto ciò che riguarda il futuro della scuola e che non sia scritto in burocratese spinto (cioè come quello che esce dal Ministero) dovrebbe incuriosirci. Secondo, perché dentro c’è anche un mio piccolo contributo alla discussione.

Class è una rivista che punta la sua attenzione sulla tecnologia, nelle sue diverse forme. E approfittando sia dell’inizio del nuovo anno scolastico, sia della discesa di Zuckerberg in Italia per parlare di internet ed educazione, ha deciso di concentrarsi proprio su come il nostro sistema educativo stia mutando. E in effetti, lentamente ma inesorabilmente, la nostra amata e odiata scuola sta cambiando. Non solo per le iniziative dal basso, di alcuni professori che sperimentano piattaforme di e-learning, flipped classroom e altre strane cose dal nome inglese, ma anche dall’altro, perché la pressione che il Ministero sta facendo in questa direzione è ormai molto grande.

La copertina di ottobre 2016 di ClassL’articolo di Class vi dà una panoramica abbastanza esaustiva – almeno per chi non lavora nella scuola – di cosa si sta facendo in questi anni, e vi offre la veloce opinione, oltre che del sottoscritto, di altri insegnanti giovani e attivi nel web come Cristina Dell’Acqua, Gloria Ghioni e Erika Pucci. Quindi, se siete curiosi, vi consiglio di leggerlo (lo trovate anche in versione digitale tramite un’apposita app che potete scaricare dai vari store: Appstore e Play Store).

La cosa su cui mi vorrei soffermare però è un’altra. E sono le resistenze. Perché come ogni rivoluzione che si rispetti, quella digitale deve scontrarsi con alcune forze che cercano di frenarla, di rallentarla, di abbatterla. Ora, vorrei riflettere assieme a voi su chi, dentro alla scuola, fa resistenza e su quali argomentazioni porta. E mostrarvi come, a mio parere, queste persone hanno sia ragione che torto, e che quindi si debba dar loro retta, ma anche andare avanti per la propria strada.

Le resistenze alla “digitalizzazione della scuola” (chiamiamola così, per comodità) non vengono dagli studenti – che sono generalmente curiosi di sperimentare nuove tecnologie, salvo poi in certi casi trovarsi delusi dal fatto che le tecnologie cambiano le cose solo fino a un certo punto – né dai genitori, che anzi spingono affinché i loro figli imparino a muoversi in questo mondo sempre più digitale. Le resistenze vengono perlopiù da noi insegnanti. Anzi, nella mia esperienza direi che globalmente noi insegnanti siamo molto più contrari che favorevoli alla digitalizzazione.

Il mio intervento su ClassLa cosa non sorprende. Chiunque è stato studente sa che gli insegnanti sono sempre a loro modo antiquati. Amano la cultura classica, si vestono fuori moda, infarciscono ogni loro discorso con frasi del tipo: «Ai miei tempi…» o «Una volta sì che si studiava». D’altronde, è la nostra stessa forma mentis ad essere conservatrice: la maggior parte di noi insegna per anni le stesse cose, e sempre cose ben radicate nel passato e poco presenti. La contemporaneità, nella scuola italiana, è sempre stata vista con sospetto o con timore. Non si può parlare di fisica contemporanea, di biologia contemporanea, di arte contemporanea, di storia contemporanea, perché serve sempre un po’ di distacco, un po’ di riflessione, un po’ di tempo. E però, in questo modo, quando la contemporaneità accelera – come davanti alle rivoluzioni –, il contatto con la realtà rischia di scappare via.

Siamo, credo, davanti a una di queste situazioni. Con una scuola che, nonostante gli sforzi di rinnovamento che tutti hanno fatto in questi anni, si sente ancora più vecchia e fuori dal tempo, perché l’oggi ha dato uno strattone in avanti. E come Achille non riesce a superare la tartaruga, così anche la nostra scuola è strutturalmente incapace di raggiungere l’oggi. A meno di ripensarla da capo.

Ma, dicevamo, la resistenza principale viene da noi professori. Che esprimiamo dubbi e perplessità di vario tipo. E, nonostante io sia considerato un seguace della modernità, trovo che queste perplessità non siano campate per aria. Sinteticamente, gli argomenti con cui mi trovo maggiormente in sintonia:
1) decine di volte si sono presentate innovazioni nella scuola (dalle competenze alla L.I.M., per restare all’ultimo decennio) e decine di volte queste innovazioni sono passate di moda nel giro di pochi anni. Quindi non vale la pena seguire queste tendenze, che scoppiano in fretta e altrettanto in fretta appassiscono.
2) il digitale è già nelle mani e nel quotidiano dei nostri studenti; noi dobbiamo casomai lavorare perché coltivino quello che da soli non fanno più, cioè lo studio, la carta, la scrittura.
3) questa scuola votata al lavoro, all’imprenditoria, al profitto (perché “digitale” il più delle volte vuol dire mondo del lavoro, non della cultura) non piace; la scuola, e soprattutto il liceo, deve essere qualcosa di totalmente estraneo al profitto, che sviluppa nei ragazzi l’amore disinteressato per le cose e non l’idea del lucro.

Tecnologia a scuola?Ora, a me sembra che queste argomentazioni siano tutte coerenti e degne – e in passato le ho in buona parte abbracciate anch’io –, ma anche superate dai tempi. Perché:
1) è vero che c’è la tendenza a farsi affascinare da qualsiasi banale innovazione, ma compito della scuola e dell’insegnante deve diventare sempre più quello di discernere. Questa è la parola chiave: in un’epoca di bombardamento mediatico, di informazioni eccessive, di stimoli infiniti, l’insegnante deve discernere (e insegnare ai ragazzi a discernere). Cioè sforzarsi di capire cosa è destinato a rimanere e cosa no, su cosa vale la pena di impegnarsi e su cosa no. La lavagna multimediale è sempre stata una scemenza: bastava guardarla con un minimo di consapevolezza per rendersi conto che il suo costo era spropositato rispetto a quello che ti consente di fare. E questo vale per le altre mode. Ma qualcosa, in questo marasma, è destinato a durare. E dobbiamo abbracciarlo.
2) combattere contro i mulini a vento non serve a nulla. Quando in filosofia si spiegano i sofisti, si spiega anche come la mentalità aristocratica del tempo non vedesse affatto di buon occhio la venuta di questi nuovi filosofia, sia per quello che insegnavano, sia perché, appunto, insegnavano. Nella Grecia del tempo non esistevano i maestri come li conosciamo oggi, e quella di mettersi ad insegnare dietro il pagamento di un compenso fu una vera rivoluzione. Per anni gli aristocratici si strapparono le vesti e urlarono alla fine della cultura, ma, come abbiamo visto in questi millenni, la cultura non è affatto morta. Non morirà neanche questa volta. E noi possiamo riuscire, credo, a far convivere l’amore per l’antico e per il moderno, per lo studio e la carta ma anche per il tablet e il computer. Certo, non è una cosa facile, ma è questa la sfida.
3) anch’io, quando ho cominciato a insegnare, guardavo con sospetto all’idea dell’alternanza scuola-lavoro e a tutti quei progetti che volevano mettere in contatto i ragazzi col mercato. «Per lavorare c’è tempo – mi dicevo – e dobbiamo lasciare che a scuola si dedichino a quello che poi non potranno approfondire, cioè la formazione del cittadino». Ebbene, sbagliavo. E penso anche che quest’ideologia non sia “di sinistra”, come molti prof si ostinano a credere, ma “di destra”. Il cittadino non si forma solo studiando la Rivoluzione Francese o Cartesio, ma anche scoprendo cosa significa lavorare. Meglio ancora: non si forma solo studiando Marx, ma anche vivendo la concretezza dei rapporti sociali di oggi. Certe volte sembra che l’obiettivo di noi insegnanti del liceo sia solo quello di creare professori universitari; cioè persone che vivono sui libri o nei laboratori e da lì non escono mai. E invece il mondo è molto più ampio dello studio di un professore. Che senso ha conoscere a menadito le equazioni di Maxwell e non sapere cos’è una startup e come lavora? Che senso ha riuscire a fare la parafrasi della Gerusalemme liberata e non conoscere la logica dei linguaggi di programmazione? Insomma, la distinzione tra scuola e mondo del lavoro è una falsa distinzione, direi molto gentiliana ed hegeliana, operata perché in fondo si ritiene che i nostri liceali siano troppo bravi per “sporcarsi le mani” col lavoro produttivo. Perché si ritiene che la teoria sia sempre superiore alla pratica, non capendo che non esiste distinzione reale tra teoria e pratica, e che l’una coinvolge inevitabilmente l’altra.

Il digitale non cambierà il nostro modo profondo di intendere la scuola, cioè un luogo in cui si formano cittadini consapevoli. Cambieranno, invece, le modalità attraverso cui creiamo cittadini consapevoli. Invece di imparare le figure retoriche impareranno a sviluppare codice; invece di scrivere con la penna scriveranno col computer; invece di imparare i dati impareranno a collegarli. Svilupperanno le competenze che sono utili oggi, insomma, e non quelle che erano utili cinquant’anni fa. Ma la sostanza rimarrà la stessa. Anche perché ogni buon insegnante sa che i contenuti contano fino a un certo punto; quello che si impara a scuola è qualcosa che va oltre i contenuti, ed è metodo, riflessione, capacità d’analisi. Qualcosa che si può trovare anche (e forse meglio) davanti a un tablet che non seduti su un banco con penna e calamaio.

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