Hannah Arendt la foto del bambino siriano forse l’avrebbe pubblicata

Nei giorni scorsi ho letto molti commenti riguardanti l’ormai tristemente famosa foto del bambino siriano rinvenuto morto su una spiaggia turca. Commenti, a loro modo, tutti giusti: molti di noi si sono indignati per la decisione di alcune testate giornalistiche di pubblicare quell’immagine, molti hanno invocato – non a torto – la carta di Treviso, molti hanno lamentato la mancanza di etica dell’informazione.

Io non ho detto niente e ho aspettato anche vari giorni a scrivere questo articolo, perché credo che in casi del genere sia sempre difficile prendere una posizione netta: è vero che è morboso guardare la foto di bambino morto, ma è anche vero che un’immagine del genere, proprio per la sua forza, può forse muovere le coscienze (e, a giudicare da quello che sta accadendo in Europa in questi giorni, forse può davvero aver contribuito a farlo). Ed è evidente a tutti che sulla faccenda dell’immigrazione ci siano molte coscienze da smuovere: il problema è, casomai, se il gioco valga la candela, se il fine giustifichi i mezzi. Se valga la pena perdere la propria innocenza. Una risposta univoca, io, non ce l’ho.

Mentre leggevo tutti i vostri commenti, però, mi è tornata alla mente Hannah Arendt, e in particolare il suo libro La banalità del male, che ho citato spesso anche su queste colonne. Come forse saprete, è un libro che la filosofa tedesca scrisse come una sorta di reportage da Gerusalemme, mentre seguiva il processo che gli israeliani facevano ad Adolf Eichmann, ex gerarca nazista ripescato in Argentina, dove si era nascosto sotto falso nome.

La tesi di fondo della Arendt, poi supportata nel corso degli anni anche da alcuni interessanti esperimenti di psicologia sociale di cui ho parlato nell’articolo che linkavo sopra, è che non esistano persone realmente cattive, malvagie, come piace pensare a certi narratori vecchio stile; ma che, piuttosto, la malvagità si annidi dietro alle persone banali, a quelle che non si pongono domande sulle loro azioni, a quelle che obbediscono pedissequamente agli ordini, a quelle (come va di moda dire in queste settimane) che sono vittime di analfabetismo funzionale.

Adolf Eichmann, nel ritratto che ci fornisce la Arendt, non era un nazista convinto, né un gerarca di alto livello. Il suo compito – che, da buon burocrate teutonico, eseguiva alla perfezione – era quello di organizzare i treni che avrebbero portato gli ebrei verso i campi di sterminio. Sapeva benissimo cos’erano, questi campi, ma non se ne riteneva responsabile: lui organizzava solo i viaggi, era una specie di funzionario dei trasporti. La stessa Arendt riporta, stupita, che Eichmann confessò di aver fatto alcune visite ai lager, ma di essere quasi svenuto davanti alle prime camere a gas e di non esserci più voluto tornare, perché quei luoghi gli davano il voltastomaco.

Il caso di Eichmann non era affatto unico. C’è un altro libro, questa volta scritto da uno storico, che spiega più o meno lo stesso meccanismo psicologico. Si intitola Uomini comuni ed è firmato dallo studioso americano Christopher Browning: vi viene spiegato come durante la Seconda guerra mondiale, quando Hitler non aveva ancora deciso come realizzare la “soluzione finale”, molti ebrei polacchi furono uccisi con un meccanismo più brutale; alcuni reparti dell’esercito – formati, appunto, da uomini comuni, che avevano un passato normalissimo – furono chiamati a compiere centinaia di esecuzioni nei confronti degli ebrei rastrellati in Polonia.

Questo meccanismo di uccisione (pistole puntate alla nuca e colpo mortale inferto a distanza ravvicinata) si era rivelato inadatto agli scopi. Intanto, rispetto alle intenzioni di Hitler, era troppo lento; ma soprattutto lasciava troppi strascichi psicologici nei soldati. Uccidere una persona sparandole alla testa non era facile neppure per il più fervente dei nazisti; ucciderne dieci, o cento, era ancora più complicato. Non potevi dire: facevo parte di un plotone di esecuzione e quindi magari non è stato il mio proiettile a ucciderlo, perché lì il rapporto era di uno a uno. Non potevi dire: sto solo facendo il mio dovere, perché avevi sempre davanti agli occhi le facce disperate di chi stavi per uccidere.

Inventarono i campi di concentramento e le camere a gas proprio per questo. Da un lato, per parcellizzare il lavoro di uccisione; dall’altro, per nasconderlo e renderlo invisibile agli stessi aguzzini. Certo, c’erano dei pazzi sadici che si divertivano ad ammazzare la gente; ma per la maggior parte i tedeschi erano persone normali, che in tempo di pace non avrebbero mai fatto niente del genere. Solo il mascheramento delle loro azioni rendeva possibile lo sterminio: così, chi faceva partire il gas poteva sempre dirsi di non aver ucciso nessuno, ma di aver girato solo una manopola; e chi portava i prigionieri dentro alle camere poteva dire allo stesso modo di non averli ammazzati, ma di aver solo spostato delle persone da un posto all’altro.

Anche il celebre esperimento di Stanley Milgram ha dimostrato più o meno la stessa cosa: se si parcellizza l’opera di violenza e se la si nasconde, molti di noi si possono tranquillamente trasformare in aguzzini.

E allora, se tutto questo è vero, si può spiegare facilmente come il dramma dei profughi, di per sé, possa non generare reazioni positive nelle persone. Nonostante questi disperati muoiano in mare a ritmi impressionanti, a molti di noi può risultare facile inveire contro di loro o invocare deportazioni: quelle morti che avvengono lontano dai nostri occhi è come se non esistessero. Perché è inutile che ci nascondiamo: per molti di noi, ciò che non si vede non accade, ciò che ci viene raccontato non vale neanche lontanamente quanto ciò che vediamo.

Quello che ci insegna la psicologia sociale, davanti al “male”, è che bisogna responsabilizzare le persone. Far vedere loro gli effetti dei loro comportamenti e delle loro parole. Metterle con le spalle al muro. Mostrare, in maniera inequivocabile, cosa accade mentre loro compiono azioni (o digitano parole su Facebook).

Questo il motivo del titolo di questo post. Questo il motivo per cui ho scritto che Hannah Arendt la foto del bambino siriano forse l’avrebbe pubblicata. Di solito non mi piace dire quello che farebbero i morti, perché loro non sono qui per smentirmi; ma in questo caso, spero con quel “forse” di farmi perdonare.

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