Il capitalismo italiano, Chiara Ferragni, Michele Ferrero e Max Weber

Premessa #1: non seguo Chiara Ferragni; non perché abbia qualcosa contro di lei, ma semplicemente perché di moda me ne intendo poco e in genere, quando un argomento non lo conosco e non mi interessa (e accade spesso), da un lato non mi va di perderci tempo che potrei utilizzare altrove e dall’altro non mi sento nemmeno di sputare sentenze al riguardo. Quindi quel che so di Chiara Ferragni deriva da come ne parlano gli altri, le persone che seguo sui vari social network. In genere la maggioranza non ne parla benissimo, ma c’è da dire che la maggioranza non parla bene di quasi nessuno, soprattutto se ancora vivo e vegeto: non c’è un politico, VIP o star che si salvi dalle fauci del web (unica eccezione, forse: Elio e le storie tese, a cui non si può proprio voler male).

Premessa #2: non conoscevo particolarmente nemmeno Michele Ferrero, anche se ne avevo raccontato un po’ di biografia in un articolo per Cinque cose belle e ne apprezzavo da tempo immemore alcuni prodotti (la Fiesta, per me, è ancora il vertice inarrivabile dell’industria alimentare italiana). Ho però letto vari articoli, in questi giorni, di persone che l’hanno conosciuto direttamente o indirettamente e che ne hanno esaltato le grandi qualità umane, qualità che hanno plasmato la sua fabbrica, rendendola, nel corso degli anni, un modello di pace sociale e lavoro collaborativo.

Lo sguardo severo di Max WeberPremessa #3: forse non tutti conoscete Max Weber, uno dei più grandi sociologi della storia, vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento e autore di un capolavoro come L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Proprio in quel saggio, uscito tra il 1904 e il 1905, Weber tracciava un parallelo tra l’etica calvinista e lo sviluppo del moderno capitalismo, mostrando come la nascita della mentalità capitalista – quella che spinge l’industriale a cercare il profitto e a reinvestirlo continuamente per ottenere un profitto ancora maggiore – fosse estranea all’orizzonte ideale del cattolicesimo e vicina invece alla concezione calvinista della vita. Per Calvino, infatti, la salvezza si ottiene solo tramite la grazia divina e tocca agli eletti, persone che Dio sceglie a suo insindacabile giudizio; ma il fatto di essere stati scelti rischiara anche sulla terra la vita del fedele, tramite alcuni segni ben visibili, come ad esempio il successo. La persona che riesce ad accumulare ricchezza tramite il lavoro è, quindi, baciata dalla grazia divina e per questo secondo Weber nei paesi calvinisti (la Gran Bretagna e l’Olanda, ad esempio) la mentalità imprenditoriale si era sviluppata molto prima e più velocemente che non nei paesi cattolici (tra cui la nostra Italia).

Svolgimento: come saprete, qualche giorno fa Chiara Ferragni è stata invitata ad Harvard per parlare del suo blog, The Blonde Salad, e di come sia riuscita a trasformarlo in una macchina da soldi. Un bel riconoscimento, che se toccasse a ciascuno di noi blogger spiantati ci renderebbe orgogliosi fino all’inverosimile. La rete – termine generico e quindi tanto brutto quanto “la gente”, ma tant’è – invece ha colto al balzo una foto in cui la Ferragni sembrava tenere un libro al contrario per ironizzare su una sua presunta cultura approssimativa.

La famosa foto di Chiara Ferragni nella biblioteca di HarvardEcco, a me fa sempre un po’ ridere quando qualcuno tiene un libro al contrario senza accorgersene, quindi non mi sento di incolpare chi aveva riso credendo che la fashion blogger fosse caduta nella più classica delle gaffe da pseudointellettuali; quello che mi ha stupito è stata invece la veemenza con cui molti si sono scagliati contro la ragazza, una veemenza che per la verità i social network non mancano di esibire ad ogni pié sospinto, si tratti della Ferragni, del videoblogger di turno, dello scrittore esordiente o perfino di chi su Twitter ha la colpa di avere tanti follower. Chiunque abbia avuto il classico minuto di celebrità – e nel mio piccolo è capitato anche a me, quando pubblicai Per chi suona la campanella e fui intervistato da alcune radio nazionali – si è reso conto che per ogni minuto di celebrità ce ne sono almeno tre d’odio.

E, si badi bene, non si tratta del solito, sacrosanto diritto di critica o d’ironia; si tratta proprio di odio, rancore, quasi spirito di vendetta. Meglio ancora: invidia; malcelata, rabbiosa e cocente invidia.

Lo stesso rancore che ho visto spargere sui social network pure per Michele Ferrero, uno che era adorato – a quanto ci è dato sapere – dai suoi stessi operai, ma che per un buon numero di italiani diventa solo il produttore della Nutella, un alimento “pieno di schifezze cancerogene”, secondo una delle più celebri leggende metropolitane (peraltro ampiamente smentita da chi si occupa di smascherare le bufale del web). Ma poco importa, perché leggere ci costa fatica: il ricco, l’industria, l’impresa sono sempre nel torto, a prescindere.

Michele FerreroE penso che in fondo Weber ci abbia visto giusto, giustissimo. Perché da noi il successo non è mai il segno che “Dio (o chi per lui) è con noi”, ma che abbiamo in qualche misura barato. Il successo, per il nostro modo di ragionare, non è mai frutto delle fatiche, ma sempre della raccomandazione, dell’amicizia altolocata, dell’usurpazione. Al contrario di quanto avviene negli Stati Uniti, in Germania, in Gran Bretagna. Non per niente, i filosofi anglosassoni come Locke esaltavano la proprietà privata come frutto del lavoro e quindi diritto naturale; una tesi tra l’altro ripresa da Mazzini, che però in Italia è sempre stato un filosofo di pochi e non certo capace di incidere sulla mentalità di una nazione.

Il fatto è che ovunque, sia nella cattolica Italia che nella calvinista America, esistono persone che arrivano al successo per vie illegali o immorali; ma allo stesso tempo, sia in Italia che in America ci sono persone che arrivano al successo col duro lavoro (e con una certa dose di fortuna, certo; ma anche col lavoro). A noi però queste finezze, queste distinzioni danno fastidio, le riteniamo troppo faticose: perché ci porterebbero ad ammettere che se siamo dei perdenti non è perché non abbiamo uno zio parlamentare o perché non abbiamo scelto qualche scorciatoia, ma perché non siamo all’altezza di arrivare al successo. A noi piace da matti piangere per chi sta peggio per noi, meglio ancora per chi è morto, e allo stesso tempo sputare in faccia a chi invece in qualche misura ce le fa.

A me pare che siamo, insomma, un popolo di piagnoni invidiosi e rancorosi; e non è un caso che certi partiti o certi politici che fanno “del qualunquismo un’arte” abbiano gioco così facile.

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