Ormai, nell’era di internet, il nome di Spinoza viene più spesso associato ad un gruppo di simpatiche canaglie che pubblicano periodicamente battute sul web che a quello del grande Baruch, pensatore olandese del XVII secolo. E, al di là dei meriti degli umoristi, è un po’ un peccato, perché Spinoza è stato uno dei più grandi filosofi dell’età moderna, talmente grande da essere perseguitato un po’ da chiunque, da essere maledetto ed espulso da ogni comunità.
A rileggerla oggi, suona ancora in maniera terribile la scomunica che gli fu comminata dalla comunità ebraica a cui durante l’infanzia era appartenuto; una scomunica che lo portò a vivere piuttosto isolato, a rifiutare quei pochi onori che sporadicamente gli venivano concessi, a pubblicare anonimamente gran parte delle sue opere. Soprattutto, lo portò a doversi mantenere lavorando come tornitore di lenti. Il che ci porta al raccontino che questa settimana ho ideato per la mia solita rubrica sul blog di Fazi Editore, “Quello che i filosofi non dicono”.
Quello che i filosofi non dicono
(siamo così, dolcemente complicati)
Il miope di Spinoza
Toc toc.
«Sì?».
«Cercavo il signor Van Der Meer».
«Non sono io. Dovete aver sbagliato porta».
«Siete sicuro? Perché mi hanno detto di venire al numero 7 di questa strada».
«Questo è il numero 37. Il 7 credo sia là in fondo».
«Dove?».
«Là. Vedete?».
«No, a dire il vero non vedo molto. Non è che potreste accompagnarmi fino al 37?».
«Il 37 è questo. Voi dovete andare al 7. E comunque avrei da fare».
«Siete un fioraio?».
«No. Perché?».
«Ho visto adesso il nome sulla porta: Spinoso. Dovrete avere a che fare con le rose, per un soprannome del genere».
«Non Spinoso; Spinoza. È il mio nome».
«Ah, Spinoza… Mi suona familiare, ma non mi pare un nome delle nostre parti. Da dove venite? Rotterdam?».
«I miei genitori venivano dal Portogallo».