Due giorni fa, sabato 9, è ufficialmente terminato l’anno scolastico, un anno contrassegnato dagli strali della riforma Gelmini, dall’imporsi ormai definitivo delle competenze al biennio delle superiori, dalla digitalizzazione (almeno apparente) dei libri di testo, dalle promesse del nuovo ministro Profumo di premiare il merito senza indebolire i fondi riservati ad evitare la dispersione scolastica. È stato l’anno del tanto atteso concorso per Dirigenti scolastici, l’anno del bando per i TFA per il reclutamento dei nuovi docenti. Sarà l’anno degli esami di maturità più o meno telematici, del plico elettronico, dei verbali spediti al Ministero seduta stante per via informatica. Sostanzialmente, è stato un anno in cui sembra esser cambiato tanto ma in cui in realtà, gattopardianamente, non è cambiato nulla.
L’unica novità vera e concreta, l’unico momento in cui la modernità, coi suoi pregi ma soprattutto con tutti i suoi limiti, ha fatto capolino nella scuola è stato sul finire dell’anno, a maggio. Prima l’attentato di Brindisi, per il quale abbiamo al momento un reo confesso ma ancora tanti lati oscuri e perplessità; poi il terremoto che ha sconquassato l’Emilia e le zone limitrofe, tra cui anche una delle due scuola dove quest’anno mi trovavo ad insegnare. Il primo evento – soprattutto per la sua in un primo momento ipotizzata matrice mafiosa – ha portato molti, moltissimi studenti, sicuramente più di quanti tutti ci aspettassimo, a un moto di indignazione generale: Melissa, la ragazza uccisa, è stata ricordata in cartelli, fogliacci, documenti di Word, dazibao moderni che spontaneamente i ragazzi hanno scritto e attaccato alle bacheche delle scuole, sulle porte delle aule, sui muri delle classi. Il secondo ha dimostrato quanto fragili, almeno nelle zone terremotate, siano le risorse riservate dalla collettività alle scuole, che spesso dispongono di edifici vecchi e fatiscenti, che si reggono a malapena in piedi in condizioni normali e che quindi rischiano di crollare alla prima scossa di terremoto; risulta quindi comprensibile, anche se contemporaneamente senza possibilità di essere accolta, la richiesta di una mamma di una mia alunna, qualche giorno fa, di far svolgere gli esami di maturità di sua figlia in tensostrutture, per paura di un’altra scossa.
Ma la fine di un anno scolastico porta inevitabilmente anche a formulare qualche riflessione, a tirare qualche somma, sia a livello generale che particolare.
Partiamo dal mio piccolo. Appurato che col libro digitale non cambierà assolutamente nulla nel modo di insegnare e di apprendere, dall’anno prossimo mi sono ripromesso due cose: 1) di cominciare ad usare con tutte le mie classi il social network scolastico Edmodo, di cui ho già parlato anche in questa rubrica, perché quando si hanno poche ore e spesso concentrate in orari indecenti (come quasi sempre accade ai precari) si rischia di vedere i ragazzi il sabato e il lunedì per poi non averne più notizie per tutto il resto della settimana, quando sarebbe utile invece comunicare con loro in maniera più rapida e continuativa; 2) di ritornare al libro di testo, di insistere ancora di più e ancora più nettamente sullo studio individuale vecchio stile, perché sono convinto che l’innovazione e i nuovi linguaggi siano utili ma contemporaneamente che non debbano portare alla sparizione dei vecchi.
A livello macroscopico, infine, rimane poco da dire. Quando i tetti delle scuole crollano, non si invocano più computer ma aule più sicure; quando i risultati delle prove Invalsi ci danno perdenti in Europa, non si invocano nuovi programmi ma più ore di lezione e classi meno numerose; quando i nostri migliori studenti sono costantemente costretti ad emigrare all’estero («come in Svezia – mi raccontava l’altro giorno una collega – dove l’università è gratuita per tutti e gli studenti ricevono anzi un piccolo sussidio statale»), non si invocano, caro ministro, dei contentini per pochi ma una riforma complessiva che ridia peso alla scuola.
Visto che il realizzarsi di tutto questo è non solo impossibile ma, in realtà, anche impensabile, allora meglio rivolgerci al nostro piccolo, ognuno al proprio orticello, ai nostri “buoni propositi” per l’anno prossimo: lo facciamo da anni, lo faremo ancora forse a lungo, sperando prima o poi di cavarne fuori qualcosa.