La campanella digitale/15 (ultima puntata!) – La scuola come non è

[dropcap] C [/dropcap]ome anticipato 15 giorni fa, la rubrica che tengo su “Scuola che fa rete” giunge dopo 6 mesi a conclusione e lo fa, speriamo, in modo degno, cercando di tirare le fila di quanto scritto finora e di dare un’idea, rapida ma completa, della scuola che vorrei.

Questa che avete appena iniziato a leggere è l’ultima puntata de La campanella digitale, rubrica che negli ultimi sei mesi vi ha tenuto compagnia sulle colonne di scuolachefarete.it, portale giovane, volenteroso e ben seguito. Lo stop, preventivato e inevitabile, è dovuto a diversi fattori: da un lato, l’arrivo ormai inesorabile dell’estate, che offre ben pochi spunti di riflessione sulla scuola; dall’altro, il fatto che l’innovazione nelle aule è un argomento che ben presto giunge naturalmente ad esaurirsi, proprio perché i cambiamenti sono rari e non si può parlare all’infinito di progetti che molto probabilmente non si realizzeranno mai; infine, perché personalmente penso che sia sempre meglio variare, non fossilizzarsi su un unico argomento o un unico interesse e affrontare sempre problemi e stimoli nuovi. E quindi La campanella digitale, nata sull’onda del successo del mio Per chi suona la campanella, giunge naturalmente a conclusione.
Prima di salutare, però, voglio spendere quest’ultimo articolo per fare brevissimamente il punto di quello che vi ho raccontato in questi mesi e, se possibile, trovare un filo rosso che chiuda il cerchio e lanci qualche prospettiva per il futuro. Scorrendo i pezzi inviati alla redazione, mi accorgo che i temi affrontati sono stati tanti e spesso diversi: vantaggi e svantaggi dell’amicizia alunni-studenti sui social network; digitalizzazione dei libri di testo e relativi problemi di licenza; utilità (è un eufemismo) dei corsi d’aggiornamento sulla Riforma; le gaffe del MIUR; gli investimenti economici che mancano; i nuovi social network “didattici”; i controsensi della certificazione delle competenze; gli Esami di Stato e le novità del ministro Profumo; la cronaca (attentati e terremoti) e i suoi effetti sulla scuola. Tanta carne al fuoco, tante strade ancora aperte, da percorrere e approfondire; tanti problemi davanti ai quali sarà sempre più difficile, già dall’anno prossimo, far finta di niente e cercare di tirare avanti alla vecchia maniera.
Il problema, però, non è se investire nella digitalizzazione o nei corsi d’aggiornamento, nell’edilizia o nel merito; il problema, in primis, è capire dove si vuole andare. Una volta capita la meta, le strade da percorrere possono essere una come molte, ma poco cambierà. La prima cosa, e lo dico da un pezzo, è stabilire dove si vuole arrivare. E questo, nella scuola italiana, non è ancora chiaro.
Direi che le tendenze, semplificando, sono due: in primo luogo c’è la vecchia idea, gentiliana e sostanzialmente fascista, che vede la scuola come uno strumento di selezione, un ente formativo “alto” che deve dire “tu sei in grado” e “tu non sei in grado”; l’altra faccia della medaglia è rappresentata da un’idea un po’ meno vecchia ma di certo non nuova, sessantottina e “di sinistra”, che pensa che la scuola sia lo strumento per appianare le differenze sociali, un “ammortizzatore” che deve dire “tu sei come lui” e “lui non è meglio di te”. Entrambe queste visioni continuano, inesorabilmente, a influenzare docenti e ministri, spesso mescolandosi l’una all’altra: così abbiamo professori severissimi durante l’anno che si trasformano in agnellini agli Esami, e viceversa insegnanti permessivi che in commissione sembrano improvvisamente dover dimostrare la loro intransigenza, perché il professore bravo è sempre severo.
Entrambe le visioni hanno fatto il loro tempo. La prima non ha da anni più senso: il titolo di studio, lo sappiamo noi tutti laureati con 110 e lode eppure precari da una vita, non conta più nulla, non ha nessun peso, è acqua fresca. Il professore che s’illude di selezionare non ha capito che nessuno, nel mondo del lavoro, si fida delle sue capacità di giudizio, anche perché il “prof gentiliano” ritiene spesso bravi i ragazzi diligenti e studiosi, quelli privi di intuito e di quelle capacità vere che invece sono decisive nella vita.
La seconda, la visione “di sinistra”, ha generato altrettanti mostri: tutti gli studenti con poca voglia di fare sanno fino a che punto possono spingersi per essere promossi col minimo sforzo, giocando sul fatto che “non si può bocciare uno per una sola materia”, sul “ha le potenzialità per rimediare l’anno prossimo” o su problemi personali di varia natura, tanto che alla fine il divario tra chi si dà da fare e chi resta a malapena a galla si assottiglia sempre di più.
E allora, come se ne esce? C’è, forse, una terza via, che parte dall’obiettivo e poi, di conseguenza, ricava le strategie e i comportamenti migliori. E qual è l’obiettivo che la scuola, la scuola italiana, oggi deve porsi? Ognuno di noi può dare una risposta. Io credo che le priorità siano due: incentivare la voglia di fare, promuovere lo studio, creare negli studenti una passione positiva per la cultura, l’approfondimento, la ricerca (cosa che, oggi come oggi, la scuola italiana, triste e lugubre, disincentiva al massimo: bisogna essere proprio tanto motivati di proprio per innamorarsi della matematica, della letteratura o di qualsiasi altra materia); e, in secondo luogo, non appianare i risultati, ma livellare le possibilità: la scuola deve cioè permettere a tutti gli studenti svantaggiati (per ragioni economiche, sociali o di altro tipo) di partire alla pari coi compagni più fortunati, di poter lottare alla pari, fermo restando che qualcuno poi se la caverà meglio e qualcuno peggio. Tutto questo comporta una scuola che premia i comportamenti virtuosi e incoraggia iniziative personali degli studenti; che offre una gamma di materie più ampia di quella tradizionale; che permette di studiare ogni disciplina a più livelli (base, intermedio, avanzato); che istituisce borse di studio e agevolazioni in base al merito e alla media dei voti; che stringe convenzioni con istituzioni esterne (associazioni sportive, conservatori, scuole di ballo, musei, cinema, biblioteche, videoteche ecc.) e fa rientrare queste attività nel curricolo degli studenti; che offre corsi di recupero frequenti e non limitati al semplice tentativo di evitare i ricorsi dei bocciati; in cui il voto conta meno di adesso ma continua comunque a contare qualcosa.
È un’utopia? È qualcosa di completamente irrealizzabile? Non tanto: buona parte di queste misure sono realtà, da molti anni, in molti sistemi scolastici europei. Il problema è uno solo: che per realizzare tutto questo in Italia servono prima di tutto i soldi. E quelli non ci sono, e anche se ci fossero non sarebbero destinati alla scuola.
Arrivederci, e alla prossima rubrica, dovunque sarà.

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