Internet, social network, iPad e lavagne interattive a scuola sono utili o sono solo una moda passeggera, un’inutile distrazione davanti a quelli che sono i veri e più gravi problemi? È giusto andare incontro ai ragazzi cercando di avvicinarsi al loro modo di comunicare e di apprendere oppure bisogna insistere sui vecchi e consolidati metodi per opporsi a una deriva che non può che peggiorare la situazione culturale dei nostri giovani?
È all’interno di questi due poli opposti che si consuma il più acceso e interessante dibattito sulla didattica all’interno delle nostre scuole negli ultimi tempi. Le due posizioni sono bene esemplificate da un paio di articoli usciti in questi giorni sulla stampa nazionale: il primo, firmato dal sessantasettenne docente universitario Raffaele Simone su Repubblica, presenta tutti i dubbi e le perplessità possibili davanti in particolare alla moda delle lavagne interattive e dell’informatizzazione, accusati di rendere gli studenti più ignoranti; il secondo, più di cronaca che di opinione e firmato da Alessio Antonini sul Corriere della Sera, presenta invece la sperimentazione in atto al liceo Morin di Mestre, dove il cartaceo è stato completamente soppiantato dal digitale, con un importante investimento economico basato però sul risparmio legato alla digitalizzazione.
Entrambi i punti di vista, come spesso accade, presentano dei punti a loro favore. La visione, un po’ pessimistica e conservatrice, di Simone è diffusissima nella scuola italiana e nasce da anni – se non da decenni – di mode passeggere ed effimere, di tentativi di innovare che si sono fermati solo alla superficie burocratica delle cose (spesso cambiando solo i nomi, nel più gattopardesco degli esiti) senza apportare alcuna miglioria all’apprendimento e alla crescita degli studenti. Diffidare, insomma, davanti a speranze facilone e superficiali è d’obbligo.
D’altro canto, mi sembra, non ci si può però fermare qui. Negli ultimi trent’anni la scuola italiana, e in particolare quella superiore, è rimasta sostanzialmente immobile, fossilizzata sia nei metodi che negli esiti. Oggi, a parte qualche raro caso dovuto alle idee e alla genialità di alcuni sparuti docenti, si fa lezione esattamente come la si faceva trent’anni fa, incuranti del fatto che questi trent’anni sono stati probabilmente gli anni di maggiore e più rapido sviluppo dei mezzi di comunicazione nella storia dell’umanità. Trent’anni fa, nel 1982, nessuno aveva il computer in casa (né tantomeno in tasca), si usavano ancora la macchina da scrivere e il telefono a disco, si vedevano due o tre canali televisivi, le notizie si apprendevano la mattina dopo o alla sera dal Tg. Tutto è cambiato, il 1982 oggi sembra archeologia. Eppure in larga misura oggi si insegna esattamente come nel 1982.
Ben vengano quindi le sperimentazioni del liceo Morin e di altre scuole che in questi mesi stanno cercando di “digitalizzarsi”, operazione onerosa che però fa pure bene all’ambiente e ai costi di gestione (in particolare delle fotocopie) sempre più insostenibili. Forse non sarà la panacea a tutti i mali della scuola, ma di sicuro è un tentativo di adeguarsi non tanto alla società (la scuola non deve mai inseguire la richiesta del mercato), ma ai giovani e al loro modo di apprendere, diverso ma non necessariamente peggiore di quello dei loro padri.