La nostra Costituzione, lo sapete, dà grande importanza al lavoro. Già l’apertura è emblematica: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», sancisce l’articolo 1. Ma poco oltre, all’articolo 4, l’argomento viene definito meglio: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».
Ora, molto si potrebbe discutere su fino a quale punto questo articolo sia rispettato; ma è innegabile che la Repubblica promuova il lavoro: cerca – magari sbagliando, ma comunque ci prova – di varare leggi che favoriscano l’occupazione, interviene nelle vertenze sindacali, eroga dei sussidi per chi ha perso il lavoro e per chi lo cerca, finanzia delle scuole di formazione. Si potrebbe fare anche di più, siamo d’accordo; ma qualcosa si fa (e non è neanche pochissimo, se vogliamo essere onesti: in molte democrazie scandinave il sussidio di disoccupazione, ad esempio, non è statale ma privato).
Diritto al lavoro, quindi, significa che lo Stato ti aiuta – o, meglio, mette in atto delle condizioni che ti possono aiutare – a trovare lavoro. Non che ti debba per forza dare lui lavoro. Non che ti debba dare il lavoro che vuoi tu, alle condizioni che vuoi tu. Questo non sta scritto da nessuna parte, questo non è un diritto.
E arriviamo al centro di questo discorso: la scuola. Come saprete, è in fase di attuazione la riforma chiamata Buona Scuola varata dal governo Renzi, che dovrebbe portare all’assunzione di circa 100mila nuovi insegnanti, superando almeno in parte il problema del precariato storico nella scuola. E le polemiche sono all’ordine del giorno: se frequentate un qualsiasi sito di informazione sul mondo dei docenti (ma anche certa stampa generalista che cavalca l’onda del malcontento) avrete letto messaggi infuocati di professori che vogliono boicottare la riforma, di gente che teme di doversi spostare a molti chilometri da casa tirando in ballo addirittura le deportazioni e cose di questo tenore.
So che un insegnante – e soprattutto un precario come me – queste cose non dovrebbe dirle, ma sono polemiche che fanno tristezza, una tristezza infinita. Ha ragione chi dice che dovremmo andare a lavorare in fabbrica, o in miniera, o all’estero da emigranti, come fanno moltissimi e come fanno ormai anche i nostri stessi studenti, quelli che noi cazziamo come “fannulloni”. Ha ragione perché certe volte pare proprio che noi insegnanti non siamo capaci di far altro che lamentarci, anche quando abbiamo un lavoro tra i più comodi d’Italia. Il 90% di noi – tra chi è in ruolo, intendo – ha quasi tre mesi di ferie pagate all’anno (contando luglio, agosto e il periodo invernale); più della metà di noi non si porta lavoro a casa, e quindi sta in servizio 18 ore a settimana più le riunioni (una media di 20-22 ore a settimana credo sia plausibile e forse anche generosa); molti, almeno qui al nord, lavorano nella loro provincia e, man mano che invecchiano, riescono a lavorare anche nella stessa città in cui vivono; per non parlare della totale assenza di controlli sulla qualità del lavoro che facciamo, della pressoché totale mancanza di aggiornamento, del fatto che siamo inamovibili anche quando entriamo in classe per fare tutt’altro che insegnare.
Certo, siamo pagati poco. Certo, non siamo incentivati, non siamo apprezzati, non siamo aiutati. Tutto vero. Ma è lo scotto dei privilegi: noi (o i nostri sindacati) e lo Stato abbiamo fatto un patto al ribasso, questa è la verità. Vi facciamo lavorare poco, vi facciamo lavorare anche se alcuni di voi non ne sono in grado, ma in cambio non chiedeteci troppi soldi. E così quello dell’insegnante è rimasto un mestiere da “mamme vecchia maniera”: si lavora di mattina, mentre i figli sono a scuola, e di pomeriggio si bada alla casa e alla famiglia.
Quando, anni fa, il centrodestra sosteneva che la scuola è stata usata per anni come un ammortizzatore sociale, cioè come un posto in cui veniva assunta gente che non avrebbe trovato lavoro altrove, ci siamo offesi tutti. Abbiamo detto che era un ulteriore modo per svilire un mestiere che è nobile e alto. Io per primo mi sono sentito defraudato del mio ruolo, io che l’insegnante l’ho fatto non per necessità (avevo già un altro lavoro), ma per scelta. Ma c’era qualcosa di vero, in quelle parole?
Ora ci lamentiamo di un piano di assunzioni che è forse sbagliato, ma ce ne lamentiamo per il motivo contrario. Non è sbagliato perché ci chiederà, a quanto pare in pochissimi casi, di spostarci, ma è sbagliato perché, diciamolo pure, assume troppe persone. La scuola non ha bisogno di altri 100mila insegnanti. Temo che molti – e forse anch’io – per un anno o due finiranno a girarsi i pollici, a far supplenze, a svolgere compiti che con l’insegnamento hanno ben poco in comune; proprio perché, senza pensionamenti, i posti in classe per 100mila nuovi insegnanti non ci sono.
Io probabilmente finirò alla fase C, e verrò pertanto assegnato all’organico “del potenziamento”. E, se questo avverrà, mi bacerò i gomiti: perché per me non c’era posto, e non ci sarebbe posto. Certo, farò progetti e lavorerò, cercando di guadagnarmi quello stipendio; ma non è un posto che mi era dovuto, tutt’altro.
Mi sono laureato nel 2003, ho fatto la SSIS fino al 2005. La SSIS, come ricorderete, era una scuola per la formazione degli insegnanti, a numero chiuso. L’idea era: scremiamo all’ingresso, ammettendone un numero ben preciso, così quei pochi poi siamo sicuri di immetterli in ruolo in tempi ragionevoli. Io finii la SSIS con 80 punti su 80, il massimo dei voti; fui l’unico del mio corso. Oggi, dieci anni dopo, sono ancora precario, e senza la riforma lo sarei ancora a lungo: perché è arrivata la Gelmini, che ha calato enormemente le ore della mia materia; perché è arrivata la riforma delle pensioni, che ha bloccato proprio i miei colleghi più anziani, trattenendoli sulle cattedre per altri anni; perché poi ci sono state altre sfighe varie (le iscrizioni ai licei sono calate, i soprannumerari di altre classi di concorso sono stati dirottati nella mia e così via). Certo, sono stato sfortunato. Se dodici anni fa mi avessero detto che dopo tutto questo tempo sarei stato ancora così, appeso a un filo, a elemosinare un incarico, avrei fatto un altro mestiere; ne avevo la possibilità, e ancora adesso d’altronde arrotondo in altra maniera. Ma c’è stato il problema che insegnare mi piaceva: è indubbiamente il lavoro che mi piace di più al mondo.
Ma il discorso è: non è colpa dello Stato, se io sono stato sfortunato. Altri compagni di SSIS sono stati più fortunati e sono entrati in ruolo già qualche anno fa; altri sono stati perfino più sfortunati di me, e si sono dovuti riciclare col sostegno o hanno cambiato mestiere. Ma io non avevo diritto a un posto di lavoro, né di scegliermi dove averlo, o almeno non ne ho di più di tutti quegli studenti ultraqualificati che sono costretti a spostarsi negli Stati Uniti o in altri paesi stranieri pur di veder riconosciute le loro competenze. Certo, sarebbe bello se chi ottiene il massimo dei voti potesse lavorare dove gli pare, magari lasciando a casa chi invece non ha voglia di far nulla, o è meno qualificato: ma non sarebbe l’Italia di oggi.
E il fatto è proprio questo: che siamo un paese in cui tutti si lamentano, sempre. In cui tutti piangono miseria. Un paese veramente decadente, che guarda molto più a quello che non ha che a quello che potrebbe fare. E questa continua lamentela non va a vantaggio né dei diritti, né della società. Anzi, fa esattamente il contrario: perché chi si lamenta per diritti violati, per motivi veri e validi, finisce per venir nascosto da tutti gli altri. A me è capitato di andare un paio di volte in un sindacato, in questi dodici anni, per diritti che mi pareva mi fossero stati negati; ma entrambe le volte le mie domande legittime dovevano aspettare il loro turno tra decine di altre che non avevano alcun fondamento, ma che venivano poste con una tale veemenza da catalizzare tutta l’attenzione. Questa è la verità: l’Italia è annientata da chi pretende continuamente cose a cui non ha diritto, togliendo spazio anche a chi i diritti se li vede negare davvero.
In questo senso sono da leggere, credo, le parole di Stefano Feltri, il giornalista de Il Fatto Quotidiano che qualche giorno fa ha dato il via a una polemica infinita sostenendo che le lauree umanistiche siano un danno per la società. La posizione di Feltri era, a mio modo di vedere, eccessiva e poco meditata, ma un fondo di verità c’era: se vuoi fare una laurea umanistica, cioè una laurea che ha meno sbocchi lavorativi, benissimo, falla pure, ma poi assumiti le tue responsabilità. Cioè: sii preparato al fatto che forse farai fatica a trovare un lavoro, che dovrai spostarti, che dovrai anche accontentarti di qualcosa al di sotto delle tue potenzialità.
Così gira il mondo. E quello che mi dispiace è vedere il livore con cui tanti insegnanti scrivono su blog e giornali. Un livore che fa solo male alla categoria: basta leggere i commenti ai loro articoli, infatti, per vedere come chi vive fuori dalla scuola non ne possa più di tutte queste lamentele. «La gente fuori non capisce quanto lavoriamo», mi dicono spesso certi colleghi. Non è proprio vero: la gente fuori non capisce quanto lavoro io, che mi faccio il mazzo da settembre a luglio preparando lezioni, correggendo compiti senza sgarrare di mezza giornata, correggendo tesine e approfondimenti, e quanto lavorano i tanti colleghi che si impegnano quanto me e forse anche più di me; ma sa bene quanto lavora una buona parte di noi, e cioè poco.