Il capitolo alla Alessandro Baricco

L’avventura di Scrittori scatenati continua: dopo il capitolo alla Fabio Volo, quello alla Ernest Hemingway, quello alla Raymond Queneau e quello alla Agatha Christie, torniamo su un italiano, e cioè Alessandro Baricco.

[dropcap] H [/dropcap]ector Oliver mi aveva lasciato lì, solo, ramingo in mezzo a una strada. Ad una strada di Parigi, che è diversa da tutte le altre strade delle altre città. Perché Parigi è Parigi, Parigi è una nebbia dell’anima, Parigi è il deserto del dolore, Parigi è l’amore per il nulla e il nulla per l’amore. Parigi è qualcosa che non puoi descrivere, qualcosa che non sai cos’è. E quando non sai cos’è, allora è jazz.
Cos’altro avevo da chiedere, alla vita, dopo tutto quello che era accaduto? E la vita, cos’altro aveva da chiedere a me? Chiedere è sempre un atto di coraggio, ma ci vuole ancora più coraggio ad ascoltare certe risposte che la vita ti dà.
Ho visto ad un certo punto della gente ferma per strada. Forse era una fermata del tram, o forse no, forse era una fermata della vita. La vita e i tram sono così simili, certe volte. L’unica differenza è che sul tram manca un pianoforte da suonare mentre il tram affonda. O era la nave? Non ricordo.
Mi sono fermato anch’io, allora, alla fermata, mi sono accodato, per solidarietà tra uomini davanti alle angherie del passato, che passano solo all’alba del tormentato esilio.
Dopo un po’ ho incrociato lo sguardo di una signora, una tipica signora parigina.
Mi ha rivolto la parola.
– Ogni tanto mi chiedo cosa mai stiamo aspettando.
– Che sia troppo tardi, madame.
Mi ha guardato perplessa, di quella perplessità che solo anni tra i tartari del sentimento ti possono dare.
– Tardi per cosa?
– Tardi per la vita, credo. Non lo so nemmeno io, per la verità. Dico parole a caso che però fan figo.
– Ma io intendevo cosa stiamo aspettando per attraversare. Siamo pure sulle strisce, no? Le auto si fermeranno, dico bene?
In breve mi sono accorto che la fila era davanti non tanto a una fermata ma ad un attraversamento pedonale, senza che nessuno trovasse il coraggio di passare dall’altra parte, perché a volte passare dall’altra parte è un salto troppo lungo per tutti i silenzi che ci portiamo dentro, per la solitudine delle nostre anche, per l’incertezza dei nostri vitrei occhi e altre menate del genere.
E allora passiamo, madame, passiamo. Compiano questo percorso, questo tragitto, ma stando bene attenti a calpestare solo le strisce bianche e non gli intervalli neri, come i tasti di un pianoforte, perché la musica è poesia e il silenzio è d’oro, dicono. Proprio per questo ribadisco sempre che scrivere è una forma sofisticata di silenzio: perché quelli che sanno scrivere bene fanno i soldi dato che appunto il silenzio è d’oro.
E, se devo dirla tutta, l’esattezza ci salverà. Non so bene perché, ma è così. Fidatevi. L’esattezza, la rabbia dei nostri capelli accigliati, il sangue delle nostre vene tristi e incerte.
Io e madame ci siamo gettati sulla strada, come due innamorati che si gettano dagli scogli verso il mare in burrasca, e d’un fiato siamo giunti dall’altra parte. Poi ci siamo girati indietro, a guardare quel che eravamo sul marciapiede perduto, e abbiamo sofferto. È uno strano dolore… Morire di nostalgia per qualcosa che non vivrai mai. Marciapiede, t’avrei voluto mio come le mucche del Wisconsin (o le vacche del Montana, cambia poco).
Ho parlato ancora per molto tempo con la signora parigina. Le ho narrato per sommi capi tutta la mia esistenza su questa Terra e le vicende degli ultimi giorni, le delusioni, le nebbie, le cadute e le risalite, su nel cielo aperto e poi giù il deserto, e poi ancora in alto con un grande salto. Lei ha ascoltato e ascoltato, però man mano che le raccontavo le mie sconfitte la sua faccia si faceva arcigna. La gente fa così, è cattiva con quelli che perdono. Io poi perdo sempre anche quando gioco da solo. Tra tutte le sconfitte possibili, ad una bisogna ancorarsi per poter contemplare, sereni, tutte le altre. E io mi ci ancoro come una balena sul Po. Diciamo che mi ci areno.
Alla fine madame mi ha abbandonato, come un falco abbandona il cestino dei rifiuti e l’unghia la ceramica: senza alcun senso.
E ho quindi vagato ancora, sperso per le strade cittadine. Non sapevo dove andavo, non sapevo perché andavo, non sapevo come andavo, non sapevo quanto andavo. Ma andavo. Andare è un po’ come sognare, o morire, che è lo stesso.
Certe volte accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde. In genere con un rutto, altre volte con un pugno nello stomaco, altre volte con una lettera del fisco. Però risponde sempre, la vita. Sempre.
E alla fine, senza volere, mi sono ritrovato davanti al Ritz: era quella la mia risposta. Il Ritz. L’hotel, non il cracker. È stato per molto tempo la mia passione segreta, il mistero della mia vita, la sorpresa delle mie tempie, la sicurezza delle mie fauci. Il cracker, non l’hotel.
Per questo sono entrato nella hall e l’ho chiesto a Jean, l’impiegato della reception che già una volta m’aveva tradito. Perché il tradimento torna sempre come le briciole del pane seminate a terra e trasportate dal vento selvaggio, ramingo, viandante. D’altronde, un pretesto per tornare bisogna sempre seminarselo dietro, quando si parte.
– Non ingannarmi, Jean – esordisco – Non di nuovo.
– Prego?
– Voglio i Ritz.
– Il Ritz è già suo, signore. Quelle scale da cui scende la solitudine, questi ascensori in cui sale la richiesta ma non scende la risposta, queste stanze in cui si respira la malinconia repressa e perplessa, questi lampadari da cui pende l’inutile magnificenza. Questo è già tutto suo, perché la vita è possesso, sesso, esso stesso, messo presso, fesso.
– Fesso?
– Licenza poetica, signore, licenza poetica.
– Ok. Ma io, Jean, non voglio “il” Ritz, voglio “i” Ritz.
– Tutta la catena? Abbiamo hotel in tutto il mondo conosciuto, o meglio conosciamo hotel in tutto il mondo.
– No, i crackers, i biscottini. La fragranza dell’assoluto, la croccantezza dell’inquietudine, il sapore dell’infinito.
– Ah, i crackers! Non li abbiamo. Abbiamo i Tuc, però.
– Non si è mai lontani abbastanza per trovarsi, Jean.
– Vabbè.
Mi sono quindi chiuso in camera con questo pacchetto di Tuc, di un giallo miracoloso. Le lenzuola del letto erano immacolate come le nuvole della commedia di Aristofane, il cuscino era tenero come la notte di Francis Scott Fitzgerald, il letto era teso come una corda del violino della cui voce parlava Andrea Camilleri, le mie gambe erano stanche come il lavorare di Cesare Pavese, il mio corpo aveva sonno come quello della ragione di Goya che genera mostri. E i miei mostri erano Jean, Adriana Rinaldi, madame Renauld, Michel Rinaldi e Hector Oliver, che mi tormentavano mentre sognavo.
Poi mi sono svegliato e ho subito guardato fuori dalla finestra: ho visto, sotto di me, Parigi, avvolta da un’aura di insoddisfazione plumbea, da una nebbia di metastasi coronariche, da qualsiasi cosa mi permetta di sfruttare appieno questo vocabolario che mi hanno regalato mesi fa alla Scuola Holden quando gli ho venduto un’assicurazione furto e incendio contro gli allievi insoddisfatti.
E poi, dopo tanto penare, mi sono deciso, perché la vita è decidere, nell’istante preciso, nel momento esatto, cosa fare e poi fare esattamente il contrario. E io avevo deciso di mangiarmi i Ritz e ora invece volevo telefonare ad Adriana Rinaldi, per comunicarle l’inquietudine ancestrale a cui siamo condannati da quando il Ritz ci ha tolto il Wi-Fi gratuito, e per la noia subodorata, e per l’odore annoiato, il calore meticcio, il minibar semivuoto, il libro di Philip Roth già finito senza averlo iniziato.
Ho tirato fuori dalla tasca un bigliettino passatomi da Oliver, con tutte le informazioni sulla signorina. Come se si potesse conoscere una persona da un numero di telefono, una taglia d’abito, luogo di nascita e tutte le residenze, scuole frequentate, voti di tutte le pagelle dalla prima elementare, cinture di karate conseguite, fidanzati, viaggi e parenti morti. Scrupoloso, Oliver, ma non si può conoscere una persona da queste cose.
– Pronto?
– Pronto? Chi è?
– Sono io, Adriana.
– Ancora lei? No, guardi…
– No, Adriana, mi lasci parlare. Anzi, lasciatemi parlare. Il voi fa più romantico-depresso-maledetto. Lasciatemi parlare. Io verrei lì e vi porterei via, per sempre.
– Eh?
– Già, ora lei sorride. Anzi, voi sorridete. E lo so cosa state per dirmi. State per dirmi: «Riditemelo. Proprio in quel tono lì, vi prego. Riditemelo».
– Non sto affatto per dire nulla del genere.
– Mi sono addormentato, e vi ho sognata. E volete sapere com’eravate? Viva. Bene, viva. E poi, vi chiederete? Viva. Non chiedetemi altro. Eravate viva. E vi sembra impossibile, vero?
– Secondo me lei inizia a portare un po’ di sfiga, se mi passa il termine. Tutti ‘sti discorsi non è che mi facciano tanto piacere.
– È perché voi avete dei cattivi ricordi. E dei cattivi ricordi guastano la vita. È una vita cattiva, Adriana, che guasta i ricordi.
– Bzz bzz… ops, la linea è, ehm, disturbata… bzz bzz… non sento più nulla… bzz bzz… devo riattaccare.
Di colpo la conversazione si è interrotta, senza che io ne capissi il perché. I telefoni hanno questa umanità che decide sempre la cosa sbagliata per noi. Sembrano nostra madre, i telefoni, con la loro imperturbabile serietà, sempre “tu, tu”, mai un “io”, un’autocritica. I telefoni. Dannati telefoni.
Adriana mi era entrata dentro come un bisturi dimenticato dal chirurgo. E aveva la bellezza di cui solo i vinti a tressette sono capaci. E la limpidezza delle cose deboli. E la solitudine, perfetta, di ciò che si è perduto.
Cosa poteva fare, ora, un eroe delle lande oceaniche come me, davanti al crollo dei suoi ideali? Per risentire nuovamente la brezza dell’avventura, l’odore della caduta e della risalita, il barlume della pace interiore e intestinale?
Credo gettarsi dalla finestra. E lo feci.

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