Ieri, scartabellando sul web, sono andato a finire sul blog di Christian Raimo (anzi, in realtà di Minimum Fax), noto traduttore, scrittore e insegnante di storia e filosofia al liceo. Lì ho trovato un post intitolato Togliere i commissari esterni alla maturità è una decisione demente e, incuriosito, l’ho letto.
Raimo dice varie cose interessanti e condivisibili. Penso che, tutto sommato, abbiamo la stessa idea di scuola.
Il problema dei commissari agli Esami di Stato
Non sono d’accordo, però, quando si arriva alla questione “Esame di Stato”, o, meglio, “commissari interni o esterni”. Lui porta una serie di motivazioni per sostenere la sua visione, che se volete potete leggervi con calma nel suo articolo. Io cerco di riassumerle: dice, Raimo, che ora l’Esame è qualcosa di sacro, una sfida, un’avventura, con molti difetti ma con ancora la capacità di spingere i ragazzi a dare il meglio; con i commissari interni non sarebbe più così, si perderebbe la sacralità di un momento speciale. Dice addirittura che «i ragazzi […] vogliono essere valutati. E vogliono che quell’esame sia difficile. È un loro desiderio […]».
Potrei fare un discorso molto lungo per cercare di farvi capire come, per me, gli Esami di Stato non siano sacri, ma piuttosto una farsa, e lo siano non da oggi. Come tutto dipenda quasi esclusivamente dalla fortuna di avere una commissione “umana” invece che “disumana”, come siano inadeguati certi insegnanti che sono chiamati a correggere le prove degli alunni (e poi magari, leggendo la traccia, pronuncino il nome di Claudio Magris alla francese, “Magrì”, non avendo idea di chi sia l’autore perché sono trent’anni che non leggono un libro serio), come a volte la luna storta del tal professore incida sul voto finale molto di più di un anno di studio. Potrei ma non lo farò: funziona così anche all’università, funziona così dappertutto. Per un esame giusto ce ne sono altri due ingiusti, o superficiali, o sfortunati; è così che va il mondo.
Quello che mi stupisce è che i professori facciano di tutto per non ammetterlo. O, meglio: Raimo ammette che l’Esame è per certi versi assurdo, ma insiste anche sul fatto che abbia ancora una sua sacralità. Mi chiedo per chi: basta parlare con qualsiasi liceale di oggi – anche i migliori, i più preparati – per rendersi conto di come i ragazzi vivano con un’ansia spropositata questo esame; di come non vogliano affatto essere valutati un’altra volta, visto che vengono valutati continuamente da cinque anni; di come si sentano vittime di terrorismo psicologico; di come si trovino catapultati in un esame che, almeno a tratti, chiede a loro di pensare ed essere originali quando per cinque anni gli si è insegnato semplicemente a ripetere a pappagallo.
Un esame sacro per chi?
Il fatto è che credo che l’Esame sia sacro per i prof, non per gli alunni. Che i programmi e il modo d’insegnare, vecchissimi e ormai superati dai tempi, siano sacri e intoccabili per i prof, non per gli alunni. I ragazzi non vedrebbero l’ora di studiare cose diverse, insegnate in maniera diversa, mentre i docenti inorridiscono davanti a qualsiasi cambiamento. Introducono il liceo musicale e il liceo sportivo? Il commento unanime della classe docente è: «Che scemenza, dove andremo a finire?». Introducono le competenze? Idem. Riformano i programmi? E loro continuano a insegnare seguendo il programma vecchio. E così via, all’infinito.
Credo insomma che quella dei professori sia la classe più drammaticamente nostalgica e immobilista della nostra società.
Insegno nella scuola pubblica da quasi dieci anni, e in questo decennio ho visto tentativi di riforma provenire da ogni parte, dalla destra, dal centro e dalla sinistra; alcuni tentativi erano osceni, altri meno; alcuni prendevano a modello le scuole del nord Europa, altri no; alcuni potevano essere interessanti, altri no. Ma comunque siano andate le cose, da parte della classe insegnante ho sempre visto una chiusura ermetica, un’opposizione a priori, una lotta contro qualsiasi proposta di cambiamento.
All’inizio pensavo: ci hanno sempre maltrattato, promesso mari e monti per decenni, e adesso è chiaro che siamo scettici, dubbiosi, e non ci fidiamo. Ma in verità non penso sia questo, il motivo. Il motivo è che siamo proprio immobili, che non vogliamo in nessun modo cambiare – molti dei miei colleghi non vogliono neppure imparare a usare l’e-mail, figuriamoci modificare il loro modo d’insegnare. Che siamo pigri, di una pigrizia mentale veramente imbarazzante. Che insegniamo, spesso, nello stesso modo da trent’anni e non ce ne vergogniamo.
Oggi è più importante sapere o sapersi adattare?
Direte: è umano. E invece no: è grave. Gravissimo. Perché, francamente, non importa che conosciamo la matematica, la letteratura o l’inglese: importa molto di più che siamo mentalmente duttili. La scuola di oggi deve insegnare una cosa sola: la duttilità, la capacità di cambiare, la capacità di adattarsi ai cambiamenti del tempo. E la scuola di oggi questo lo rifiuta fin dai suoi professori, che usano tutte le loro capacità intellettuali per bocciare ogni possibile cambiamento. Sia chiaro: non è così per tutti. C’è anche chi qualche timido tentativo lo fa; ma sono sempre cose estemporanee, che non toccano la sostanza di come funzioni la nostra scuola.
L’Esame di Stato era una cosa poco seria (nel senso di “poco giusta”) già coi commissari esterni; risparmiare un po’ di soldi credo non peggiorerà la situazione. Io, addirittura, l’Esame di Stato lo abolirei del tutto e toglierei valore legale al titolo di studio. Chi dice che la scuola, senza i commissari esterni, diventerà un “diplomificio” non sa, o non vuol sapere, che non sarà la presunta severità di un esame finale (il cui risultato non conta più nulla) a salvare una scuola che è morta dentro, e da molto tempo.