Quello che i sindacati e i vari collegi docenti sembrano aver partorito, in queste settimane di vibranti proteste, sono infatti sostanzialmente due forme d’azione:
* scioperi, scioperi, scioperi;
* il blocco di tutte le attività aggiuntive, come corsi di approfondimento, progetti speciali, gite scolastiche e così via.
Partiamo dagli scioperi. Già altre volte ho spiegato quanto ritenga ottocentesca e controproducente questa pratica in ambito scolastico: solitamente ci si astiene dal lavoro per procurare un danno economico al proprio “padrone”, per fargli capire che gli è indispensabile il lavoro degli scioperanti, ma nella scuola tutto questo è impossibile. L’unico disagio che gli insegnanti creano è alle famiglie e agli alunni, interrompendo l’insegnamento, cosa che rende felici i ragazzi che hanno così un’ora di pausa dal solito tran tran e lascia completamente indifferenti le famiglie (anzi, a volte acuisce in loro l’idea che i docenti non facciano nulla); al ministro, giustamente, non gliene può fregare di meno. Tanto più che questa volta non si capisce neppure bene per cosa si sciopera: la proposta sulle 24 ore settimanali è – pare – già stata ritirata, e vedere cinque o sei sigle sindacali litigarsi i giorni della settimana per manifestare contro eventuali future nuove riforme fa un po’ ridere. Insomma, sembrano scioperi fatti più per abitudine e per alzare la voce, per piangersi un altro po’ addosso, come se non lo facessimo già tutti i giorni.
Ma è nel secondo caso – nell’ipotesi di blocco delle attività aggiuntive – che si tocca i limiti dell’assurdo. In varie scuole i colleghi stanno discutendo di questa forma di protesta, e qualcosa del genere è già stato attuato qua e là anche in passato, davanti alle pazze idee della Gelmini: fermare tutte le gite a tempo indeterminato, bloccare i corsi di approfondimento, i giochi sportivi, le uscite didattiche, gli incontri di orientamento. Azzerare, di fatto, tutta quell’offerta formativa “in più” che le varie scuole, grazie al sempre più esiguo Fondo d’Istituto, riuscivano a garantire agli studenti. Anche qui bisogna chiedersi: a che pro? Davvero vogliamo protestare contro i tagli del Ministero rendendo i nostri ragazzi ancora più scemi di quanto già non siano? Privandoli della possibilità di vedere posti nuovi e culturalmente interessanti, di approfondire temi o stili di insegnamento che normalmente non si possono affrontare nell’orario mattutino (teatro, cinema ecc.), di “crescere” in maniera un po’ più nuova e innovativa? È questa la nostra grande protesta?
I sostenitori di tali iniziative ritengono che questo sia il solo modo per farsi sentire davvero: i viaggi d’istruzione rappresentano un business importante, l’unico forse legato alla scuola assieme ai libri di testo, e queste attività extra sono quasi una forma di volontariato che i professori – questo sarebbe il messaggio – non sono più disposti a concedere a un Ministero che li sottovaluta e li attacca continuamente. Per carità: tutto vero. Ma ancora una volta, cosa si spera di ottenere? Si pensa davvero che al ministro Profumo e ai suoi tecnici gliene freghi qualcosa che la vostra scuola non faccia più il corso di teatro? Dio santo, manca perfino la carta igienica: cosa volete che gliene importi del teatro? O del fatto che non andate in gita? Tanto dirà che c’è la crisi e non ci sono i soldi per svaghi.
Anche in questo caso, perciò, a me pare che invece di colpire il datore di lavoro, chi cioè vuole tagliare sull’istruzione, si colpisca l’utenza, creando del malcontento e dell’astio verso la categoria: come la prenderebbero, infatti, gli studenti, privati di gite, corsi per una volta interessanti e facoltativi, approfondimenti che potrebbero aiutarli a scegliere l’università o ad affrontare meglio gli Esami di Stato?
No, credo che se si voglia protestare realmente contro il ministro, la classe politica e l’andazzo generale, le vie possibili ed efficaci siano solo due: o si va tutti davanti al MIUR e lo si occupa a oltranza – e allora sì un disagio a qualcuno lo si crea davvero – oppure si prova a insegnare meglio di quanto non si stia facendo ora. Perché il problema è proprio questo: la qualità del nostro insegnamento. Se in questi anni i vari governi che si sono succeduti hanno avuto il coraggio di proporre – e spesso di portare a termine – riforme punitive nei confronti della classe insegnante è stato perché l’opinione pubblica, in generale, ha un’opinione piuttosto bassa di noi e del nostro lavoro. Hanno tagliato le ore, i posti, i pensionamenti perché l’italiano medio ritiene che noi non facciamo praticamente nulla, e quel poco che facciamo lo facciamo male. E l’italiano medio non pensa questo solo perché è scemo e indottrinato dalla tv; lo pensa perché spesso, nella sua carriera scolastica, ha incontrato un certo numero di professori incapaci e/o svogliati. Lo pensa perché in parte è vero.
E allora, se vogliamo far sentire la nostra voce contro i tagli selvaggi l’unica via alla lunga veramente efficace è far capire che siamo dei professionisti, che il nostro mestiere ha una ragione d’essere, che ci meritiamo uno stipendio adeguato e un certo riconoscimento sociale. Che, insomma, siamo degli insegnanti capaci e motivati, lavoratori degni di una seppur minima stima; persone il cui lavoro è da proteggere e tutelare. Altrimenti finiamo per fare solo il gioco di chi ci considera una spesa inutile, soprattutto in tempo di crisi.