Oggi sono stato ospite dell’Assemblea di Istituto del Liceo Classico “Celio” di Rovigo per parlare del rapporto tra insegnanti e studenti, alla luce anche di quanto ho scritto nel mio libro “Per chi suona la campanella” e di altri articoli comparsi su varie riviste e giornali. L’incontro era strutturato così: prima sono state mostrate agli alunni delle video-testimonianze sia di studenti stranieri che sono venuti a frequentare il quarto anno di superiori in Italia, sia di una ragazza italiana che lo sta frequentando in Norvegia, video che mettevano in luce soprattutto le differenze tra il nostro sistema scolastico e quelli stranieri; poi ho parlato io.
Ovviamente sono andato a braccio, cercando di coinvolgere i ragazzi nelle riflessioni, ma più o meno il canovaccio che ho seguito è quello che ritrovate qui di seguito. Lo posto qui, nonostante sia un testo molto lungo, perché è il frutto di anni di riflessione sulla scuola e le sue prospettive, oltre che i suoi limiti, e perché spero possa essere da stimolo anche per altri.
Quando Luca e Sara mi hanno chiesto di partecipare a quest’assemblea e mi hanno spiegato di cosa avrebbero voluto che parlassi, mi sono trovato un po’ in imbarazzo: da un lato, il rapporto alunni-insegnanti è un argomento che mi interessa molto, e loro mi hanno coinvolto proprio perché probabilmente hanno letto alcune delle mie opinioni al riguardo sul mio libro di cui vi hanno già parlato; dall’altro, quando mi sono messo a tavolino a pensare a cosa potevo raccontarvi, mi sono trovato con talmente tante cose da dire che potrei andare avanti per varie ore. Quello che vi dirò oggi, quindi, sarà solo una sintesi parziale, una sottolineatura su una serie di aspetti che mi paiono più urgenti ma che non esauriscono per nulla il problema. E non riguarderà tanto i social network e i giovani, l’argomento di cui forse Luca e Sara credevano avrei parlato, ma cosa secondo me dovrebbero fare gli insegnanti e cosa gli studenti oggi.
Marc Bloch
Ma andiamo con ordine. Anzi, prendiamola un po’ larga. Vorrei iniziare parlandovi di uno storico, un certo Marc Bloch. Probabilmente, la stragrande maggioranza di voi non l’ha mai sentito nominare. Marc Bloch è uno storico francese vissuto nella prima metà del Novecento, ed è probabilmente il più grande storico della nostra era. Purtroppo a scuola di lui non si parla praticamente mai, e invece i suoi libri e la sua vicenda personale hanno molto da insegnarci, sia sulla storiografia che – ed è quello che tenterò di fare qui oggi – indirettamente sulla scuola.
Due brevi note biografiche che vale la pena sottolineare: Marc Bloch nasce a Lione nel 1886. Suo padre è a sua volta uno storico, materia con la quale inevitabilmente cresce anche il giovane Marc. Studia a Parigi e poi si specializza all’estero, in particolare a Berlino; partecipa come ufficiale alla prima guerra mondiale, e viene pure decorato, e nel dopoguerra diventa professore universitario prima a Strasburgo (dove lascia un ricordo talmente buono che oggi una parte dell’università è a lui dedicata), poi alla Sorbona di Parigi, la più prestigiosa università di Francia.
Nel frattempo, nel 1929 ha fondato assieme al collega e amico Lucien Febvre una rivista intitolata “Annali di storia economica e sociale”, in francese Annales. Questa collana ha un successo straordinario tra gli storici di Francia e d’Europa perché propone un modo nuovo di fare storia. Fino ad allora, la storia che si studiava nei licei e nelle università era essenzialmente una storia “dei personaggi illustri”; i libri erano perlopiù libri di storia diplomatica: si imparavano a memoria i nomi dei re, le guerre, le alleanze, le leggi. Non che oggi, al liceo, le cose siano poi così tanto diverse: i vostri manuali scolastici sono ancora adesso, 80 anni dopo, infarciti di queste informazioni. La storia si studiava, e in buona parte si studia ancora oggi, memorizzando date, nomi, battaglie. Bloch e Febvre propongono invece una storia nuova: si rendono conto che per conoscere il primo Ottocento non bisogna in realtà sapere a menadito la biografia di Napoleone, ma bisogna scoprire come vivevano gli uomini e le donne dell’Ottocento; per conoscere il Medioevo francese non è realmente importante conoscere gli editti dei re o l’andamento della guerra dei Cent’anni (o almeno non solo quello), ma sapere come si viveva nelle campagne. Nasce insomma la storia sociale, la storia della “maggioranza dimenticata”; si studiano l’economia, la società, gli usi, le tradizioni, la mentalità. Compaiono libri che raccontano l’economia del Mediterraneo, le credenze popolari medievali, addirittura la storia della morte.
Ma questo, oggi, non ci interessa. Sì perché al di là dei libri di ricerca sul Medioevo, Marc Bloch negli anni ’40 scrive altri due volumetti non meno importanti. Il primo si intitola “Apologia della storia”, il secondo “La strana disfatta”. Sono libri a loro modo commoventi, perché nel frattempo la vita di Marc Bloch è cambiata. Non insegna più alla Sorbona. Nel 1940 i tedeschi hanno invaso la Francia, e lui è ebreo: torna a Lione, la sua città natale, che non viene occupata direttamente dai tedeschi ma è sotto il controllo del governo di Vichy, lo Stato collaborazionista che s’instaura nel sud della Francia. Il maresciallo Pétain, capo del governo, vara misure antiebraiche anche qui, ma non può toccare direttamente Bloch, troppo noto a livello internazionale. Ciononostante, lo storico di Lione non se ne sta con le mani in mano: nel 1942 inizia a collaborare con la Resistenza francese col nome in codice di “Narbonne”. Nel 1944 la polizia di Vichy però lo arresta e lo consegna alla Gestapo, a cui è ormai in pratica sottoposta: viene imprigionato per qualche mese e sottoposto a numerose torture; quando è chiaro che la Francia sta per ritornare in mano agli Alleati, nel giugno 1944 viene fucilato. Pare che le sue ultime parole siano state “Vive la France!”.
Perché vi ho raccontato tutto questo? Perché “Apologia della storia o Il mestiere di storico” è un libro che Bloch scrive durante i mesi di attesa, di attività partigiana, di clandestinità, e che viene pubblicato dal suo amico Febvre a guerra conclusa; è l’eredità di Bloch, perché lì lo storico condensa le sue idee sulla storia e i suoi insegnamenti. Ma come dicevo è anche un libro molto commovente. Non parla degli eventi dell’attualità, non fa la vittima, non lamenta il destino avverso che gli è toccato in sorte e che presto lo condurrà alla morte; da storico del lungo periodo, sa che le sue vicende personali contano poco nel panorama complessivo, e preferisce quindi concentrarsi sulle idee da lasciare ai posteri. Ma quello che sta vivendo riesce a emergere comunque tra le righe, ad esempio dalla quasi totale mancanza di note a pié di pagina o in alcuni errori di citazione, dovuti al fatto che in quei mesi non aveva molte biblioteche per recarsi a controllare le sue fonti.
In “Apologia della storia” Bloch propone vari concetti fondamentali per la storia: tra tutti, quello che interessa a noi oggi è che lo storico deve in pratica trasformarsi in un detective.
La metafora del detective non è di Bloch, è mia, ma credo renda bene l’idea di cui lui si faceva portatore. Avrete sicuramente visto centinaia di film o telefilm polizieschi, e saprete di conseguenza che un detective che si rispetti – uno, per dire, come Hercule Poirot o il tenente Colombo – sospetta di tutti i soggetti coinvolti in un crimine. Non si lascia incantare dalle moine di una bella ragazza, non si lascia frenare dal prestigio sociale di un sospettato; no, lui diffida e sospetta di tutti, e controllerà di certo mille volte le dichiarazioni degli interrogati, sicuro che qualcuno di loro cadrà in contraddizione o verrà smentito dai fatti. Costruirà delle congetture, cioè delle teorie nuove da sottoporre al vaglio delle prove. Farà esperimenti, tenterà di indurre in errore i sospettati, costruirà trappole. Ecco, per Bloch lo storico dovrebbe fare queste stesse cose con le fonti, cioè coi documenti che si trova a maneggiare nel suo mestiere: non può fidarsi di quello che queste fonti gli riferiscono, ma deve subito metterle in dubbio, sottoporle a critica, confrontarle con le prove. Ricordate la frase tipica del dottor House, giusto per rimanere ai riferimenti televisivi? “Tutti mentono”. Ecco, uno storico non può che essere d’accordo con il medico interpretato da Hugh Laurie: per sbaglio o per interesse, per farsi bello coi posteri o semplicemente per il gusto di spararla grossa, qualsiasi autore di documenti è un possibile bugiardo, e compito dello storico è quello di criticarlo e, se serve, smascherarlo, senza fidarsi delle facili soluzioni.
Il secondo libretto che vi ho citato di Marc Bloch s’intitola “La strana disfatta”, e più che un libro di storia all’epoca era un libro di attualità: descriveva dal punto di vista dello stesso Bloch la fulminea invasione della Francia da parte dei tedeschi e i motivi di una sconfitta così clamorosa e rapida. Motivi che si possono riassumere nella tesi di fondo dell’intero libro: i francesi, fortificando la linea Maginot, si erano preparati a combattere ancora una volta la guerra del ’14-18, mentre i tedeschi nel frattempo avevano cominciato a combattere la guerra del ’40.
Perché vi ho parlato di questi due libri e di Marc Bloch? Cosa c’entrano con la scuola, con gli alunni e gli insegnanti? Vedete, io credo che principalmente il compito di noi insegnanti sia di fare di voi qualcosa di simile a quello che doveva essere lo storico pensato da Marc Bloch, e credo che a volte noi insegnanti falliamo perché ci comportiamo come la Francia coi tedeschi nel ’40.
A cosa serve la scuola?
Mi spiego meglio complicando un po’ le cose: lasciate lì Bloch, lo riprenderemo poi, e seguitemi in un nuovo ragionamento.
Vi siete mai chiesti a cosa serva la scuola? Scommetto di sì, scommetto che ve lo siete chiesti molte volte, e credo anche che molti di voi si siano dati la risposta: “A niente”. È vero? Ho indovinato? Be’, è un bene che vi siate posti questa domanda. Io ho l’impressione, tante volte, che i ministri, i funzionari del ministero e pure molti professori, forse addirittura la maggioranza, questa domanda non se la pongano, o quantomeno non cerchino una risposta, accontentandosi di frasi fatte.
Io la domanda me la sono posta parecchie volte, e anche parecchie volte mi è stata posta. Come vi hanno detto, insegno filosofia, e invariabilmente dopo qualche settimana di insegnamento i miei alunni cominciano a chiedere: «Prof, ma questi filosofi non avevano niente di meglio da fare?», «A cosa serve studiare le opinioni di persone fuori di testa come queste?», «A cosa serve la filosofia?». Premesso che è indubitabilmente vero che alcuni filosofi, effettivamente, avevano ben poco da fare nella vita e forse un passatempo un po’ più attivo e dinamico avrebbe pure fatto loro bene, la domanda ha un suo senso. Perché perdiamo anni della nostra vita a studiare Platone, Aristotele, Kant, ma anche Leopardi, Svevo, Cicerone, Seneca, l’equazione della parabola, le disequazioni di secondo grado, la tavola periodica degli elementi, l’atomo di Bohr e chi più ne ha più ne metta? Se farete gli avvocati, probabilmente non sentirete più parlare in vita vostra di Bohr; se diventerete medici Leopardi non vi sarà servito a nulla (al massimo a capire quanto faccia male alla schiena una vita china sui libri); se sarete giornalisti potrete pure dimenticare le regole della grammatica italiana. A cosa serve tutto questo? È tutto una immane perdita di tempo?
Quando i miei studenti mi chiedono “a cosa serve la filosofia?”, io a volte provocatoriamente rispondo “Sì, avete ragione, non serve a niente”. La filosofia non serve a niente. Ma non serve a niente neppure la matematica, non serve a niente la fisica, non servono a niente la letteratura, la storia, Shakespeare, Catullo o Nietzsche. Non servono a nulla, non vi aiutano a operare meglio o a scrivere una dichiarazione dei redditi priva di errori. Ma proprio qui sta la loro forza. Non servono a nulla perché il compito della scuola non è insegnarvi un mestiere; in questo la scuola è inutile. La scuola serve ad altro. Cerchiamo di arrivarci.
Togliamo il disturbo
Una risposta a cosa serva la scuola ha provato a darla, un paio di anni fa, un’insegnante famosa in un libro che ha venduto più di centomila copie. L’insegnante è Paola Mastrocola, già scrittrice affermata, e il libro è “Togliamo il disturbo”. Nella scuola in cui insegnavo due anni fa, quando questo saggio uscì, lo lessero praticamente tutti, e quasi tutti – insegnanti ultracinquantenni che, come la Mastrocola, insegnavano da 20 o trent’anni in un liceo – ne erano entusiasti. «Finalmente qualcuno che dice le cose come stanno», esultavano in sala insegnanti. Allora, incuriosito, lo comprai anch’io, anche perché qualche anno prima avevo già letto, della Mastrocola, “La scuola raccontata al mio cane”, e mi era abbastanza piaciuto. Ebbene, “Togliamo il disturbo” è a mio modo di vedere il manuale di tutto quello che un buon insegnante non dovrebbe mai fare, la presentazione – involontaria – di tutti gli errori commessi dai prof italiani negli ultimi venti o trent’anni. È lo specchio di ciò che la scuola è diventata e di ciò che però la scuola non dovrebbe a rigor di logica essere. È l’emblema di come non si sia capito a cosa serve la scuola.
C’è chi dice che certi libri non servano e siano anzi dannosi; io penso invece che i brutti libri siano perfino più utili di quelli belli, così come gli errori sono più utili delle verità: i libri brutti ti fanno arrabbiare, ti fanno urlare “Ma no, santo cielo, non è così”, ti spingono e ti stimolano a smentirli, a indagare, a cercare delle verità più profonde. I libri che ti dicono già le cose giuste ti rendono solo passivo. E allora vorrei usare questo libro per indagare con voi, passo passo, quelli che secondo me sono appunto gli errori della scuola italiana. Poi voi a vostra volta, ovviamente, dovrete prendere questo mio discorso non come una verità conclamata, ma nello stesso modo in cui io prendo il libro della Mastrocola: come uno stimolo per porvi delle domande.
Errore #1: la ruggine
E allora andiamo a spiegarli, brevemente, uno per uno, questi errori. La Mastrocola dice, in primo luogo, che i ragazzi italiani di oggi, i liceali, non sanno più l’italiano. Lei insegna nel biennio di un liceo scientifico piemontese e afferma testualmente che addirittura 19 ragazzi su 20 nelle sue classi non sono in grado di scrivere in un italiano corretto; e non si tratta solo di grammatica, di qualche apostrofo sbagliato: è che proprio questi 19 ragazzi, il 95% degli alunni liceali, non sanno ragionare, non sanno impostare un discorso. Afferma anche, la Mastrocola, che è pure inutile sforzarsi di correggerli, questi ragazzi, perché hanno altro per la testa, non vogliono imparare, e quindi lei nei compiti in classe non indica più, di fianco all’errore, come il ragazzo avrebbe dovuto esprimersi, ma semplicemente ci scrive “ruggine”, come a dire che lo studente ha il cervello troppo arrugginito perché la professoressa Mastrocola perda il suo tempo con lui. E guardate che non sto mentendo, non sto esagerando: scrive proprio questo, la signora Mastrocola, in un libro che ha venduto più di centomila copie. È stata ospitata anche da Fabio Fazio, è andata a dirlo anche in tv. E nessuno ha detto niente; anzi, l’hanno pure applaudita. Vista che la situazione è questa, conclude la scrittrice, lei è stufa di dover star dietro a quei 19 che non studiano, non s’impegnano, stanno tutto il giorno al cellulare e per i quali, a 14 anni, non c’è ormai più nulla da fare; è stufa di star dietro a questi disgraziati e trascurare quell’unico veramente meritorio di assistere alle sue lezioni sul Tasso, quell’unico studente che sa scrivere in italiano.
Ora, al di là di una proporzione evidentemente falsa sulla quale per ora possiamo anche sorvolare, io qualche domanda alla Mastrocola gliela farei. Immaginiamo che tu sia un medico e ti si presentino 20 pazienti, di cui 19 effettivamente malati e 1 in realtà sano: se tu abbandonassi i 19 malati per seguire l’unico sano ti radierebbero dall’ordine e ti licenzierebbero, perché vorrebbe dire che non stai facendo il tuo lavoro: tu sei pagato per guarire i malati, mica per crogiolarti nella salute del sano. Per cosa è pagato un insegnante? Per aiutare chi non ce la fa a farcela da solo o per star dietro a chi ce la farebbe comunque anche senza insegnante? Io me lo son chiesto fin da subito, per quale motivo lo Stato mi dovesse pagare (anche se in realtà mi paga molto poco): mi paga, a mio avviso, perché io renda un servizio allo Stato stesso, perché io formi il maggior numero possibile di cittadini capaci di fare il bene della società, di contribuire con le loro azioni e il loro pensiero al bene collettivo. Se ne formassi solo uno per classe, cioè il 5% del totale, quelli che magari sarebbero dei buoni cittadini anche se io non ci fossi, non credo che sarei un grande insegnante, sinceramente; sarei un insegnante inutile.
Guardate, io non sono uno che ama richiamarsi ai presunti valori cristiani o alle parole del Vangelo, ma qui una citazione non si può non farla. Ricordate la parabola del figliol prodigo? Quella in cui un ricco signore ha due figli, uno bravo e ubbidiente e l’altro stupido e imbecille? Ebbene, quando l’imbecille torna a casa, ravveduto, viene accolto con grandi feste dal padre, suscitando le ire del fratello, che – da buon primo della classe – è invidioso marcio dell’altro che se ne è andato in giro per il mondo a fare la bella vita. Addirittura il padre fa ammazzare il vitello grasso, festeggia come se avesse vinto la lotteria. E al fratello perfettino, l’alunno ideale della Mastrocola, il padre dice, più o meno: «Dobbiamo far festa, perché tuo fratello era perso e ora è stato ritrovato. E smettila di fare il cretino». E in un’altra parabola si dice che il pastore deve abbandonare il gregge nel deserto per andare in cerca della pecorella smarrita. Certo, noi insegnanti non siamo Gesù Cristo, mi pare ovvio, ma siamo comunque – a nostro modo – degli evangelizzatori, cioè persone che letteralmente portano una nuova novella. E io la scuola la vorrei così, una scuola che si sforza di ritrovare le persone, non che gioisce di essersele perse per strada. L’ho scritto anche nel mio libro: una scuola che si vanta di quanti ne ha bocciati è come un chirurgo che si vanta di quanti ne ha lasciati morire; ovviamente il chirurgo non può salvare tutti, e spesso ne salverà pochissimi, ma di sicuro ogni morte sarà per lui un fallimento.
Errore #2: la medicina giusta
Secondo: la Mastrocola scrive, testuale: “Io insegno a chi mi segue, a chi condivide con me, perché lo sente, il fascino e la suggestione delle mie proposte di studio. Il numero delle persone che mi seguirà dipenderà dal grado di interesse che susciterà in loro quel che dico. Io non proverò a dirlo in altro modo per fare più adepti, per la semplice ragione che il modo in cui lo dirò sarà quello per me migliore possibile. Io non so perché quei pochi mi seguono e quei tanti se ne fregano e comunque indagare sulla magia che attrae alcuni e fa fuggire altri non è mio compito: continuerò ad amare quei pochi e cercherò di preservare le loro qualità coltivandole. Agli altri non posso dare nulla se non quel che amo e nel modo in cui lo amo. La voglia? Gliela facciano venire i genitori a suon di restrizioni, di divieti, e, se il caso, punizioni”.
Rimaniamo sul paragone che abbiamo tirato in ballo prima: è come se un medico dicesse: io amo la tachipirina, è secondo me la miglior medicina che sia mai stata inventata. E io quella do ai miei pazienti: a quelli che hanno mal di testa e a quelli che hanno male ai piedi, a quelli che hanno il cancro e a quelli con la forfora. Sempre e solo tachipirina, perché è il top. Immaginatevi Dan Peterson che fa: «Mmmmmh. Tachipirina, per me numero uno!». Se a qualcuno la tachipirina non farà effetto, non sarà certo colpa mia: io avrò comunque offerto ai miei pazienti ciò in cui credo, il meglio del meglio. La colpa non sarà mia, ma loro, che non si sono fatti venire la voglia di guarire.
Mi dispiace, ma secondo me un insegnante, come un medico, deve fare l’esatto opposto di quello che propone la Mastrocola: deve cercare il modo giusto per raggiungere ognuno dei suoi studenti, deve sforzarsi di cambiare almeno in parte per andare incontro alle “malattie” e ai bisogni del suo pubblico, anche se è faticoso, anche se sicuramente sarebbe molto più facile usare il proprio modo, il proprio stile, e mandare a quel paese chi non si adegua a noi.
Errore #3: Leopardi
Terzo: vorrei ora prevenire una critica. La Mastrocola, e molti altri insegnanti, sono sicuro mi contesterebbero il paragone tra insegnante e medico, essenzialmente per un motivo: gli studenti asini scelgono di non studiare, mentre i malati mica scelgono di ammalarsi. Purtroppo temo che questa argomentazione non sia del tutto vera, per due motivi. Primo: molti ammalati si ammalano a causa del loro stile di vita: fumano, non fanno sport, bevono, mangiano in maniera disordinata e scorretta. La maggior parte delle malattie, soprattutto quelle croniche e leggere, sono causate in buona misura dal malato. Secondo: non è sempre vero che gli asini sono asini perché scelgono di esserlo e i secchioni sono secchioni perché invece si impegnano e faticano sui libri. L’ignoranza non è sempre colpa dell’ignorante, anzi direi che lo è raramente, così come la sapienza non è sempre merito del sapiente. Più avanti vedremo come spesso sono le condizioni socioeconomiche della nostra famiglia a farci appartenere ad un gruppo piuttosto che ad un altro, ma c’è un altro fattore di cui non si parla mai e che vorrei invece qui sottolineare: molto spesso, i secchioni sono secchioni perché non hanno niente di meglio da fare. Avete presente Leopardi? Il più grande poeta e contemporaneamente il più grande secchione della storia d’Italia? Perché si era dedicato alla poesia e allo studio? Perché studiare era bellissimo e appassionante, superiore ad ogni altra attività umana? No, cari miei, e lo stesso Leopardi lo sapeva benissimo: ci si era dedicato perché non aveva uno straccio di amico, perché non aveva la ragazza, perché – possiamo dirlo? – era uno sfigato. Ogni studente, quando legge la vita di Leopardi, lo pensa: «Mamma mia che sfigato». Anche chi lo ama lo pensa provando pena per lui, ma comunque lo pensa. Leopardi era così solo da arrivare addirittura a studiare l’ebraico da autodidatta. Ve lo immaginate? Quanto disperato e triste doveva essere, il povero Leopardi, per arrivare a studiare l’ebraico? Ma se Silvia l’avesse degnato di uno sguardo, col cavolo che sarebbe rimasto sui libri: sarebbe uscito di casa e sarebbe corso a vivere. Senza pensarci su un solo istante. Davvero credete che tra la “Gerusalemme liberata” e una bella ragazza o un bel ragazzo ci sarebbe un adolescente disposto a preferire il Tasso (un adolescente sano di mente, intendo)? Tutti noi professori siamo diventati professori perché da ragazzi eravamo – chi più, chi meno – degli sfigati, non nascondiamocelo. Se fossimo stati i fighi del gruppo saremmo diventati motociclisti, calciatori, politici, imprenditori, avvocati, chirurghi, geni dell’informatica, divi di Hollywood. Ma eravamo sfigati, avevamo pochi amici – spesso sfigati e “intellettuali” come noi -, e stavamo a casa a studiare perché è sempre meglio di un pugno in un occhio. Perché nei romanzi, nella musica, nei film, nelle poesie avevamo la possibilità di evadere, di sognare una vita diversa. La cultura è sempre stata e sempre sarà la consolazione di chi non è soddisfatto della propria vita, soprattutto quando si è dei ragazzini. Poi, per carità, si cresce, magari si smette di essere degli emarginati brufolosi, s’incontra una persona, si acquisisce sicurezza e si comincia a vivere anche la propria vita; ma la passione, quella vera, per i libri e lo studio la si acquisisce standosene chiusi in casa controvoglia mentre gli altri sono fuori a vivere. Quindi non è vero che si diventa secchioni perché lo si sceglie; è la vita che sceglie per noi, anzi, meglio, è il gruppo dei più fighi che, escludendoci, sceglie per noi. Io me lo immagino quell’uno su venti che ascolta incantato le lezioni della Mastrocola su Torquato Tasso: occhialuto, brufoloso, ignorato da tutti gli altri diciannove. Avete presente Peter Parker? Ecco, è Peter Parker senza i poteri di Spider-Man.
Errore #4: la scuola rallenta i migliori?
Quarto: si dice spesso che non è giusto “rallentare i migliori” per aspettare gli sfaticati, che troppo spesso la scuola ha tolto possibilità all’eccellenza, le ha impedito di arrivare a vette più alte. Io credo che dicendo questo si sopravvaluti, e di molto, il ruolo della scuola. Ve lo ho accennato prima, ora vorrei approfondire il tema: davvero voi pensate che quell’unico secchione della Mastrocola sia diventato così grazie alla scuola? Davvero pensate che i vostri voti, quando sono belli, dipendano solo dai vostri insegnanti, che vi hanno fatti crescere, stimolati, resi più intelligenti? Be’, scusate ma vi sbagliate. Dipendono anche da quello, certo, magari soprattutto da quanto avete appreso nei primi anni del vostro ciclo scolastico, ma non dipende solo da quello. Quante ore passate a scuola? Circa 5, massimo 6 al giorno. Quanti giorni all’anno? Circa 200. Stando larghi, 200*6 fa 1.200 ore all’anno al massimo di scuola (ma probabilmente ne fate molte meno). In un anno però state svegli circa 5.800 ore. Quasi 5 volte tanto. Passate a scuola al massimo il 20% del vostro tempo da svegli (ammesso che a scuola riusciate a stare svegli). Il resto lo passate altrove: in casa, fuori con gli amici, in pizzeria, in palestra, davanti alla tv.
Un paio d’anni fa è uscito uno studio molto interessante dell’americana RAND Foundation, che analizzava i risultati di varie ricerche statistiche condotte lungo circa 30 anni. La ricerca si proponeva di confrontare i risultati scolastici dei ragazzi all’inizio dell’anno scolastico, alla fine dell’anno scolastico e dopo le vacanze estive, e di trovare le linee di tendenza. I risultati sono sorprendenti. Per spiegarli in maniera più chiara, usiamo due casi emblematici: un ragazzo borghese, figlio di professionisti laureati con un reddito annuo cospicuo, e un ragazzo figlio di operai che non sono riusciti a prendere il diploma e che portano a casa appena il necessario per vivere. Mentre vanno a scuola, i due ragazzi imparano più o meno le stesse cose, perché mettiamo che siano entrambi diligenti, e a fine anno raggiungono all’incirca i medesimi risultati scolastici. Poi arrivano le vacanze e, tre mesi dopo, a settembre, i due ritornano a scuola. E sapete che succede? La RAND Foundation ha dimostrato, con dati statistici molto accurati, che il figlio di genitori laureati, quando torna a scuola, è più intelligente di quando l’ha lasciata, mentre il figlio di operai è meno intelligente di prima. Mettiamo che a giugno entrambi i ragazzi fossero arrivati a un ipotetico livello 8 in matematica e letteratura; a settembre il figlio di laureati sarà al livello 9, mentre il figlio di operai al 7 (i dati che vi ho riportato sono inventati, ma proporzionati ai dati reali della ricerca americana). I ricercatori si sono chiesti: come mai un risultato così strano? E l’unica risposta che sono riusciti a darsi è: il figlio di operai passa le vacanze a casa, a guardare programmi stupidi in tv, a cincischiare in strada con gli amici o a correre dietro alle ragazze, mentre il figlio di laureati viaggia, conosce il mondo, visita musei, impara lingue straniere. La verità è questa: quattro quinti di quello che imparate lo imparate fuori da scuola. Se siete intelligenti non lo dovete alla scuola, o almeno le dovete solo il 20% della vostra intelligenza: lo dovete ai vostri genitori, ai vostri amici, ai vostri nonni, ai vostri fratelli. Vi faccio un esempio personale: io sono sempre andato bene a scuola, molto bene. Eppure non ho mai studiato in maniera esagerata. C’erano miei compagni che studiavano molto più di me, ma ottenevano risultati peggiori. Sapete perché? Perché io quando tornavo a casa trovavo centinaia di libri nella libreria di casa mia, e prima o poi finivo per sfogliarli; perché i miei avevano una videoteca con film di Hitchcock, Truffaut, Fellini, Peckinpah, e ogni tanto per forza di cose mi capitava di vederli; perché ogni mattina in casa mia arrivava un quotidiano; perché a pranzo e cena si guardava sempre un telegiornale; perché in tv si guardavano programmi perlopiù intelligenti; perché in casa si parlava di cose importanti, si discuteva, si spiegavano le questioni. Quando avevo più o meno la vostra età, una volta, portai a cena a casa mia una mia fidanzatina; ne uscì sconvolta. «La peggior cena della mia vita», mi disse. E io, stupefatto: «Cosa? Ma a me sembrava fosse andato tutto bene…». «Ma se avete parlato tutta la sera di cose di cui io non ho capito un’acca? Tua sorella e tua madre si son messe a parlare di meccanica quantistica! E tu capivi di cosa parlavano!». Manco fosse un’accusa infamante. «Vabbè, mia madre insegna fisica, è normale…», le dissi io. «Sì, ma poi avete finito con la fisica e vi siete messi a parlare di registi sconosciuti». «Be’, dai, Akira Kurosawa non è sconosciuto…». «E poi di filosofia! E di Proust!». «Sì, ma prendendolo in giro, però!». «Avevo paura che dopo il dolce vi metteste a interrogarmi». Vedete, quando ricambiai la visita e andai per la prima volta a cena da questa fidanzata scoprii che a casa sua guardavano i film senza sapere il nome del regista e degli attori, e spesso addirittura non gliene fregava niente neppure di sapere il titolo del film, cambiavano prima di vedere il finale e spesso non capivano granché della trama; e che i suoi genitori guardavano il telegiornale, ma solo per commentare la pettinatura della conduttrice o le notizie sui cani, quelle che danno alla fine, quelle sceme. E questa ragazza stava facendo un liceo come il mio, era figlia di laureati come me e poi si è laureata pure lei. Ha avuto professori come i miei. Ma faceva fatica a capire le trame dei film quando ad esempio c’erano dei flashback complicati, non capiva le allegorie, scriveva in un italiano faticoso e involuto, era più lenta a comprendere le conseguenze di ciò che studiava, aveva delle falle clamorose. E tutto questo non per colpa della scuola, né in fondo per colpa sua perché era una ragazza molto studiosa, con ottimi voti, forse addirittura migliori dei mei; la “colpa” era semplicemente dell’ambiente in cui era cresciuta, un ambiente normale, probabilmente l’ambiente tipico di molte famiglie italiane. C’è poco da fare: non è la scuola a rallentare le persone; è ciò che c’è fuori che rallenta le persone, che limita le possibilità intellettuali degli studenti volenterosi. Anche perché neppure la peggior scuola riuscirebbe a rallentare un ragazzo che a casa ha un ambiente stimolante e che vuole conoscere. Albert Einstein, lo saprete benissimo, ebbe un percorso scolastico molto accidentato, caratterizzato spesso da voti mediocri e vari abbandoni: aveva indubbiamente insegnanti pessimi, che non ne avevano capito la genialità, ma questo non gli ha impedito di diventare una delle menti migliori del Ventesimo secolo, grazie allo stimolo dei propri parenti (in particolare, pare, di uno zio), dei compagni di studi e di lavoro, della prima moglie. L’ho scritto anche nel mio libro e ne sono convintissimo: quando si fanno le superiori si impara di più dai propri compagni di studi che dagli insegnanti. Anche per questo le differenze che ci sono in prima superiore tra gli studenti di un liceo e di un istituto professionale sono destinate ad aumentare: perché i liceali fanno amicizia con altri liceali, cioè persone motivate e interessanti, mentre chi va al professionale fa amicizia con persone che, generalmente, stimolano poco o hanno altro per la testa.
E quindi torniamo per un attimo all’inizio, alla domanda che ci siamo posti prima di cominciare a parlare di “Togliamo il disturbo”: a cosa serve la scuola? Se è vero tutto quello che abbiamo detto finora, secondo me la scuola serve a ridurre le differenze. Se è vero che i figli dei ricchi bene istruiti ricevono già per conto loro migliaia di stimoli ogni giorno, magari poco strutturati ma pur sempre efficaci, la scuola deve fornire stimoli a chi non li riceve a casa, a chi vive in un ambiente più povero di idee. La scuola non serve per il Peter Parker tanto amato dalla Mastrocola. La scuola serve per gli altri 19, per quelli che credono che la scuola non serva, per quelli che perdono ore al cellulare o a guardare programmi stupidi alla tv. La scuola serve a rendere intelligenti anche loro, anche se loro non lo vorrebbero. Per questo lo Stato paga noi insegnanti: perché in uno Stato democratico non serve a nulla che il 5% o meno delle persone sappiano pensare. Se solo il 5% delle persone sa ragionare, sa valutare, sa criticare, lo Stato democratico va in rovina. Una democrazia che funzioni ha bisogno che tanti sappiano ragionare. La filosofia, la matematica, la fisica, il latino non vi insegnano un mestiere; la scuola, dalle elementari alle superiori, non deve insegnarvi un mestiere, anche perché se ci provasse vi insegnerebbe sempre un mestiere sorpassato, perché tutto cambia troppo in fretta nel mondo del lavoro perché la scuola possa stare al suo passo. No, la fisica, il latino, la storia e la filosofia sono semplicemente degli esercizi per la mente che vi renderanno cittadini e persone migliori, capaci di distinguere il vero dal falso, di comprendere i meccanismi economici, di giudicare e valutare le cose che vi circondano. Avete presente quando andate ad allenarvi prima di una partita? L’allenatore prima di tutto vi fa fare un po’ di corsa, per riscaldarvi; poi fate degli esercizi muscolari, delle flessioni, degli addominali, degli esercizi di allungamento; poi simulate dei pezzi di azione, come i cross nel calcio, i dai-e-vai nella pallacanestro o altre cose ancora; infine, fate una partitella di allenamento. Ecco, la scuola è l’allenamento della vita. Sono le flessioni, gli addominali della vita. In partita nessun arbitro vi imporrà di fare 100 addominali, quindi un atleta ingenuo potrebbe dire: «Gli addominali non servono a nulla, li facciamo sempre in allenamento ma non abbiamo mai dovuto farli in partita». È vero, durante una partita nessuno si mette a fare gli addominali, ma tutti gli allenatori del mondo sanno che gli addominali sono necessari per sviluppare quei muscoli che poi serviranno per saltare, piegarsi e correre, azioni che in una partita si ripetono all’infinito. Quindi no, la filosofia direttamente non serve a nulla. Ma indirettamente serve a tutto, serve a fare di voi persone intelligenti, indipendenti, mature. E serve soprattutto a chi queste cose non riesce ad esserle senza la scuola.
Errore #5: l’effetto Pigmalione
Quinto: la Mastrocola dice che è stufa di dover insegnare a persone a cui non gliene frega nulla del Tasso (il suo chiodo fisso, pare ci sia solo lui nella storia della letteratura), dell’Ariosto, di Dante e così via. Una reazione umanissima: anche a me dispiace che certi miei studenti (diciamo la verità: quasi tutti) non apprezzino Kant, che da studente ho amato fino allo sfinimento e che cerco di spiegare con grande impegno, ma questo, scusatemi, non mi autorizza a dire “allora arrangiatevi”, manco fossi un bambino di due anni a cui hanno fatto un dispetto. Tutt’altro. Anche perché fregarsene degli alunni è deleterio. Lo dimostra un celebre esperimento che ora vorrei raccontarvi. Nel 1968 un ricercatore americano, Robert Rosenthal, si recò all’inizio dell’anno scolastico in una scuola elementare della California e chiese alle maestre di poter effettuare un test d’intelligenza sui bimbi del primo anno. Effettuò i test e raccolse i dati; poi convocò le maestre per comunicare loro i risultati. Ma organizzò quello che ai nostri occhi può sembrare uno scherzo malvagio: invece di riferire alle maestre i risultati effettivi dei test, riferì volutamente dei risultati falsi. Scelse, completamente a caso, alcuni bambini (circa il 20% del totale) e disse alle maestre che questi avevano un quoziente intellettivo superiore ai loro compagni, anche se di fatto non era così. Rosenthal aspettò qualche mese e, alla fine dell’anno, si ripresentò a scuola, chiedendo di poter effettuare nuovamente un test di intelligenza a quei bambini. Sapete cosa scoprì? Che quel 20% di studenti che lui aveva, per pura invenzione, presentato come i più intelligenti della classe erano effettivamente diventati i più intelligenti, e che quelli che invece erano veramente i più intelligenti in partenza erano scesi a livelli più normali. Cosa significa? Rosenthal lo spiegò tirando in ballo un effetto che da allora è noto come “Effetto Pigmalione”: la maestre, anche inconsapevolmente, trattavano gli alunni che ritenevano migliori con un occhio di riguardo; li incoraggiavano, li guardavano con occhi sognanti, sotto sotto anche senza volere li preferivano agli altri, davano segno di stimarli. E questo faceva sì che i ragazzi fossero più invogliati a studiare e a impegnarsi. È una cosa sconvolgente: se tu ritieni un ragazzo più intelligente di un altro, questo alla fine tende effettivamente a diventare più intelligente, anche se tu non c’avevi capito nulla.
E la cosa, badate bene, vale anche per gli insegnanti: nel 1979 un altro paio di ricercatori americani provarono a fare un test analogo. Si piazzarono fuori dalle aule e iniziarono a parlare con degli studenti, stavolta più grandi, prima di una lezione con un nuovo professore. Ad alcuni parlarono benissimo del prof, elogiandone le qualità e l’intelligenza; ad altri, scelti a caso, ne parlarono invece molto male. Tutto questo all’insaputa del professore. Poi, dopo un ciclo di lezioni, sottoposero gli studenti ad un test sul contenuto delle lezioni e chiesero agli studenti stessi di valutare la performance del docente. I risultati confermarono i messaggi falsi diffusi dai ricercatori prima della lezione: quelli con i quali era stato esaltato il professore avevano ottenuto risultati di quasi 15 punti percentuali migliori degli altri (una media del 66% contro una media del 52%) e, ovviamente, avevano valutato molto meglio l’operato dell’insegnante. Perché era avvenuto questo? I ricercatori ipotizzarono un circolo virtuoso: quelli che avevano un pregiudizio positivo sul docente erano portati a seguire con maggior attenzione ed entusiasmo la sua lezione e quindi ad assorbirne meglio i concetti, e il professore, di rimando, vedendo che questi lo seguivano, finiva per rivolgersi principalmente a loro, generando l’effetto Pigmalione classico.
Cosa ci insegna tutto questo sul rapporto insegnante-studente, che è un po’ il tema di questo incontro? Che questo rapporto funziona e diventa produttivo quando c’è stima reciproca, quando cioè il docente crede che i propri studenti abbiano delle qualità e quando gli studenti stimano il prof. Altrimenti non si ottengono risultati soddisfacenti. Quando la Mastrocola – e con lei molti, moltissimi insegnanti – esprime la sua sfiducia sulle giovani generazioni, magari in parte c’azzecca, perché ogni generazione ha i suoi difetti e la vostra sicuramente è meno attenta e meno ligia al dovere di quelle di venti o quarant’anni fa, ma di fatto pensare che non ce la potrete mai fare vi porterà a non farcela. Etichettarvi come ignoranti vi rende, alla lunga, ignoranti, c’è poco da fare. E lo sapete benissimo pure voi: quando avete un insegnante che vi incoraggia, che ha fiducia in voi, rendete molto di più di quando avete qualcuno che vi guarda dall’alto in basso, che vi etichetta come dei nullafacenti, no?
Errore #6: il cronocentrismo
Sesto: perché la Mastrocola ha un’opinione così pessima di voi e della vostra generazione? Siete davvero questa rovina dell’umanità in cui solo il 5% dei liceali (cioè probabilmente l’1 o il 2% del totale) si salva? Io onestamente non credo. Quelle stesse frasi che la Mastrocola rivolge a voi, io ai miei tempi le ho sentite rivolte alla mia generazione. La mia prof d’italiano si lamentava quasi ogni giorno di come non sapessimo le regole del latino, diceva che eravamo ignoranti, che non sapevamo scrivere. Io, che nei temi ero il migliore della classe, avevo 7, tutti gli altri dal 6 in giù. Non lo dico per vantarmi, ma solo con spirito di rivalsa: oggi io, 15 anni dopo, sono citato in un paio di manuali di letteratura del liceo, lei non è citata manco nel bollettino parrocchiale. Segno che forse quello che diceva non era molto vero.
C’è una citazione di Logan Pearsall Smith, il cognato di Bertrand Russell, che amo molto e che recita: «Accusare i giovani è una parte necessaria nell’igiene dei vecchi, e aiuta enormemente la loro circolazione sanguigna». In America, per quelli che credono che la loro generazione rappresenti il culmine della storia e che quelle successive siano destinate a portare il mondo e la cultura verso la rovina, hanno pure inventato un nuovo termine: Cronocentristi. Anche nel codice di Hammurabi, risalente al 1700 a.C., si dice che i giovani porteranno molto presto il mondo alla rovina. Fortuna che da allora sono passati 3800 anni e noi siamo ancora qua, ancora piuttosto in salute.
La mia impressione è che in parte noi professori critichiamo voi giovani perché sicuramente ve lo meritate, ma in parte anche perché non vi capiamo, perché siamo troppo vecchi per voi, perché viviamo in due mondi diversi. Perché non capiamo o non sappiamo interpretare il cambiamento che voi rappresentate. Il mondo si è evoluto, in questi ultimi decenni, a ritmi rapidissimi; 15 anni fa, quando ho finito io il liceo, non c’erano i cellulari (o comunque non li usavamo noi giovani, ma solo i top manager), non c’era internet (come sopra), non c’era l’iPad, stava appena arrivando il satellite e la musica la dovevi per forza comprare in negozio. Era un secolo fa, un millennio fa. C’erano le cabine telefoniche lungo le strade. Per parlare con qualcuno dovevi chiamarlo a casa, e se non c’era richiamarlo più tardi. I film dovevi noleggiarli in videoteca e guardarli in sala, dove avevi l’unico videoregistratore di casa, altroché scaricarli e guardarseli sul tablet in treno. Tutto è cambiato, tranne due cose: la scuola e Berlusconi (ma la seconda la lasciamo perdere). L’estate scorsa sono andato a fare esami al Paleocapa, il mio vecchio liceo, e ho notato che in 15 anni nulla, ma proprio nulla, è cambiato: stessi programmi, identici; stesso modo di esporre, stesso modo di studiare, stesso modo di interrogare; in molti casi anche stessi professori. Avevano 45 anni allora, oggi ne hanno 60. L’ultima indagine effettuata, nel 2006, diceva che l’età media degli insegnanti era 50 anni; il 50% era sopra i 50 e solo 6 su 1.000 tra quelli in ruolo erano sotto i 30 anni, la maggioranza alle elementari. Oggi sono passati 7 anni, e certamente la media è aumentata, visto che i pensionamenti sono stati pochi, le immissioni in ruolo ancora meno e intanto siamo tutti invecchiati. Abbiamo il corpo insegnante più vecchio d’Europa. In Francia, Stati Uniti, Giappone, Corea, Inghilterra e molti altri sistemi avanzati i prof in ruolo sotto i 30 anni sono tra il 10% e il 20% del totale. 20 o 30 volte di più che da noi, dove saremo sullo 0,5%. Ora, chiariamo: io non voglio dire che gli insegnanti di 50 anni siano scarsi e che i 30enni siano tutti bravi: esistono 30enni incapaci nella scuola e 50enni molto bravi. Alcuni di questi 50enni ai miei tempi li ho amati e li stimo tuttora, ma la verità è che insegnano quasi tutti secondo lo stesso stile, nello stesso modo che hanno acquisito quando hanno iniziato a insegnare, 35 anni fa. A parte qualche piccolo particolare, come i programmi di storia che non arrivano più solo alla prima guerra mondiale ma alla seconda, o un paio di capatine al mese in laboratorio di informatica, la scuola del 2013 è praticamente identica a quella del 1978. Studiamo le stesse cose che hanno studiato i nostri genitori, indifferenti ai cambiamenti del mondo.
Vi ricordate cosa dicevamo all’inizio, parlando di Marc Bloch e de “La strana disfatta”? La Francia perse la Seconda guerra mondiale perché voleva combatterla come se fosse una guerra del 1914 mentre i tedeschi la vinsero perché combatterono la guerra del 1940. Ecco, noi siamo i francesi. Noi stiamo combattendo una guerra di trent’anni fa. E ovviamente stiamo perdendo. Ma non ce ne accorgiamo, non vogliamo accorgercene. Diciamo che non è colpa nostra, che è colpa degli studenti, che sono troppo cambiati, che non si sforzano di venirci incontro. Me li immagino i generali francesi mentre Parigi veniva occupata da Hitler: «Non è colpa nostra, sono questi stramaledetti tedeschi che non hanno voglia di combattere come diciamo noi».
Errore #7: i pappagalli intelligenti
Settimo e ultimo punto: la Mastrocola si dice contenta quando riesce a trasmettere ai suoi alunni “eletti” ciò che lei ama; quando questi riescono ad esprimersi con un linguaggio simile al suo, quando amano e apprezzano quello che lei ama e apprezza. Quando cioè l’alunno diventa una sua copia. Ed è effettivamente così, ancora oggi: noi insegnanti premiamo chi ci somiglia, sempre. Chi ci ripete quello che gli abbiamo insegnato. Più fedelmente lo fa, meglio è. È una deformazione nostra e del nostro sistema scolastico. Lo si vede soprattutto agli esami di Stato, dove dovremmo valutare la maturità culturale di uno studente e invece finiamo per valutare principalmente quanto ha studiato, nonostante negli ultimi anni siano stati anche fatti dei passi avanti. La terza prova, che tanto incide sul voto degli scritti, è quasi esclusivamente contenutistica. L’orale, poi, non parliamone: la parte di approfondimento personale è sempre più anestetizzata, dai presidenti che ne limitano la durata temporale e a volte dagli studenti stessi, che portano argomenti banali e già sentiti miliardi di volte, pura ripetizione di quanto detto in classe; la parte di interrogazione, invece, serve semplicemente a dimostrare che avete imparato a memoria quello che vi è stato detto. Certo, ci assicuriamo anche che abbiate capito quello che ripetete, ma comunque vi chiediamo sempre e solo di ripetere. Noi, in questa scuola, formiamo semplicemente dei pappagalli. Dei pappagalli intelligenti, per carità, ma pur sempre dei pappagalli.
All’estero non funziona sempre così. Nemmeno all’università, per fortuna, funziona così. Al mio primo mese alla Facoltà di lettere e filosofia, al corso di storia medievale, la mia prof a un certo punto venne in aula con tante fotocopie, e a ognuno ne diede un pacchetto. A me capitarono una bolla papale di Bonifacio VIII e un documento della segreteria di Filippo il bello, re di Francia. Mi disse: «Traducile in italiano, interpretale, valutale e scrivici su una tesina». «Io? Ma io non ho mai fatto niente del genere». «Be’, comincia». Erano documenti inediti, o almeno io non li trovavo già editi. Sapevo a grandi linee com’era andata la disputa tra Bonifacio e Filippo, ma poco altro. Tradussi, interpretai, osai. La tesina piacque. Ma non avevo mai fatto nulla del genere. Io ero abituato a studiare l’interpretazione corretta e a ripeterla, non a trovarla io. Non solo non mi sentivo in grado, ma non c’avevo mai provato. Al liceo ti insegnano le cose, non te le fanno trovare. Quando arrivi ad affrontare le poesie del nostro amico Leopardi non ti chiedono di interpretarle tu, ti dicono come vanno interpretate. E tu devi solo ripetere. La motivazione ufficiale è che uno studente non è in grado di interpretare una poesia come hanno fatto i più grandi studiosi della nostra storia, ed è verissimo. Ma non è questo il punto: l’obiettivo della scuola è insegnare agli studenti la verità su tutto – cosa ardua e impossibile, ammesso anche che esista una verità eterna – o a criticare e trovare la loro verità, per quanto incerta, fallace e banale possa essere?
Insegnarvi a ripetere è la soluzione piu comoda: non si corrono rischi, perché tutto è più facile da valutare e il voto più alto va a chi ha imparato meglio. In America, ad esempio, però non funziona sempre così. Ci sono nozioni e cose da imparare a memoria come da noi, ma chiunque abbia visto qualche film adolescenziale o qualche telefilm sa che i prof di letteratura dicono molto spesso: «Per la prossima volta leggetevi il Romeo e Giulietta e ditemi cosa ne pensate». Valutano le impressioni degli studenti e la fondatezza delle loro opinioni. Alle medie fanno il classico concorso di scienze, in cui ogni alunno deve inventarsi (non vedere da lontano in laboratorio, come da noi) un esperimento o una dimostrazione scientifica. Alle elementari c’è lo “Show & Tell”, il “Mostra e dimostra”, in cui i bambini diventano per una mattina insegnanti e spiegano qualcosa che conoscono o che hanno imparato. C’è una politica del rischio e dell’intraprendenza, soprattutto a scuola, che porta poi inevitabilmente anche ad un’economia in cui si rischia e si premia l’intraprendenza. Da noi tutto ciò è pura utopia, da noi la scuola vive di immobilismo, come la nostra società.
Un paio di anni fa insegnavo in un liceo simile al vostro, e quindi in ogni classe facevo 3 ore di lezione settimanali. Avendo un po’ di respiro dal classico programma ho fatto un esperimento (e qualcuno dei presenti lo sa, perché era là allora): ho fatto leggere dei romanzi usciti negli ultimi anni, o vedere le puntate di un telefilm come Lost, perché in qualche modo collegati al programma che dovevo svolgere; poi ho dato un questionario molto articolato ai ragazzi. Molte domande erano, lo ammetto, un po’ bislacche. Chiedevo cose del tipo “Perché secondo te gli uomini che compaiono nel capitolo 12 indossano una sciarpa rossa? E perché proprio rossa?”, oppure “Secondo te è lecito comportarsi come si comporta questo personaggio? Perché?”. Molti studenti andarono in crisi. Si telefonavano tra loro chiedendosi “Tu cosa hai scritto?”. Poi venivano pure da me: «Prof, io ho risposto così, ma qual era la risposta giusta?». E io: «Non c’è una risposta giusta. Non lo so. Io ho un’ipotesi, voi presentatemi la vostra. Magari mi convincete». Vedete, c’è la paura, costante, di sbagliare. E cosa voleva dire sbagliare, per quei ragazzi? Voleva dire dare una risposta diversa da quella del prof. Voleva dire essere diversi dal prof. Ma siamo sicuri che essere diversi dal prof sia sempre uno sbaglio?
La crisi del nozionismo
È arrivato il momento di concludere e tirare le somme. Mi hanno chiesto di parlarvi del rapporto insegnante-studenti, e io sono partito da Marc Bloch. Ora è il momento di tornarci, a Marc Bloch. Abbiamo già capito che, se vogliamo avere una minima possibilità di “vincere”, non possiamo combattere una battaglia di 30 anni fa, ma dobbiamo combattere quella di oggi. Benissimo. Ma il discorso non è finito qui.
Ricordate l’Apologia della storia? Il messaggio più importante che quel libro lascia ai non storici è essenzialmente questo: non bisogna fidarsi di nessuno ma sottoporre a critica le nostre fonti. Benissimo. Questo è l’insegnamento perfetto per voi studenti: dubitate dei vostri maestri, dubitate di ciò che vi insegnano. Imparate a sviluppare e maturare un senso critico. Non vi sto dicendo che quello che vi insegnano sia falso; vi sto dicendo che non potete accettarlo solo perché ve l’hanno insegnato. Non potete. Non esiste una risposta esatta alle domande serie, non esiste una persona che vi possa dire chi dovete votare, o quali scelte di vita dovete fare; siete voi che dovete trovare la vostra risposta. Dovete essere in grado di trovare una vostra risposta. Se una domanda richiede una risposta esatta, ad esempio “quando è nato Leopardi?”, allora è una domanda che non vale la pena di porsi.
I contenuti, le cose imparate a memoria a lungo andate non serviranno più a nulla. Tra venti o trent’anni non servirà conoscere la parafrasi della Divina Commedia, la data e le alleanze della prima guerra mondiale, l’equazione della parabola: con Google tutte queste informazioni già oggi le posso trovare in 3 secondi netti. E tra 10 anni, quando sarete adulti, sarà ancora più facile, perché esisterà un’altra nuova diavoleria elettronica. Anche oggi queste informazioni non sono il fine della scuola, ma casomai il mezzo: conoscere i dati, le regole, le formule è solo un modo per arrivare a ragionare. Il fulcro non sono i dati, è il ragionamento.
Non servirà più a nulla sapere le cose. Servirà sapere interpretare, saper capire, saper valutare. Quello sì. Servirà avere una vostra personalità, un vostro pensiero. Essere autonomi. Viviamo sempre più in un’epoca in cui c’è un surplus di informazioni e il difficile è capire quali sono importanti e quali no, quali sottolineare e quali scartare, quali sono veritiere e significative e quali invece non valgono nulla. Viviamo in un’epoca in cui l’omologazione si fa sempre più forte, non più tanto nel modo di vestire o di divertirsi, ma sempre più nel modo di ragionare ed esprimersi. Internet e i cellulari ci hanno aperto infinite possibilità comunicative e noi stiamo finendo per usarne meno di prima, uniformandoci. Se aprite Twitter o Facebook ci trovate centinaia, migliaia di persone che nella stragrande maggioranza dei casi dicono la stessa cosa, semplicemente in un modo più o meno elegante. Come i compiti di italiano di maturità, d’altronde. Ecco, imparate a liberarvi dei vostri maestri, imparate a liberarvi dei vostri professori, imparate ad essere originali. Imparate ad essere voi stessi e ad avere idee vostre. Imparate ad avere il coraggio di osare. Come diceva Kant, quel noioso di Kant, Sapere aude!, abbi il coraggio di conoscere, di non fidarti delle idee che altri hanno deciso per te e di trovare le tue.