Un paio di settimane fa, nella puntata precedente di questa rubrica, ho parlato di libri di testo: della normativa che impone di adottare solo libri disponibili in formato digitale o “misto” e di alcune iniziative, sparse per l’Italia, che cercano di cogliere – davanti a tante speranze disattese – il meglio dello spirito di questa normativa. Tra queste iniziative citavo, quasi en passant, anche Book in progress.
Tempo qualche ora e ho ricevuto, via mail, oltre ai soliti commenti anche un link ad un articolo che approfondiva la questione da un punto di vista completamente diverso dal mio, più interessato all’ottica del diritto d’autore che alle opportunità didattiche dell’iniziativa.
Le questioni sollevate da Marco Fioretti, però, sono interessanti e meritano una trattazione. Il punto focale è il seguente: se lo scopo è davvero quello di fornire ai ragazzi e alle loro famiglie dei testi validi e contemporaneamente, tramite il supporto digitale, a basso costo, perché non rendere disponibili a tutti gli studenti d’Italia tali testi? Perché cioè non distribuirli con una licenza Creative Commons che ne consenta la riproducibilità senza oneri né autorizzazioni?
Se questo è il problema, capisco la critica di Fioretti, sensatissima, ma capisco anche le reticenze della rete di Book in progress (che comunque non ha mai risposto ufficialmente, quindi posso solo ipotizzare la sua idea al riguardo).
Mettiamoci nei panni di un insegnante: è pagato 1.300 € al mese, è considerato il più delle volte uno che non fa nulla. Soprattutto, il suo stipendio non dipende minimamente dall’impegno che mette nel lavoro: chi entra in classe solo per leggere il giornale prende la stessa identica busta paga di chi si porta a casa chili di relazioni da correggere.
Ovviamente questa è una generalizzazione, ma in ogni caso possiamo facilmente immaginare che i professori disposti a scrivere, di proprio pugno, un manuale (impresa che nel migliore dei casi porta via mesi di lavoro) appartengano alla categoria degli sfacchinatori gratuiti.
Anche ammesso che la scuola possa in qualche caso elargire un rimborso spese al volenteroso professore che si imbarca in un compito del genere, si tratterà come sempre di cifre simboliche, fuori mercato, che permettono all’insegnante al massimo di consolarsi pensando di non aver lavorato completamente gratis. Insomma, quasi sempre la stesura di un manuale che poi verrà concesso a prezzo di costo agli studenti è un lavoro che l’insegnante presta gratuitamente. L’ennesimo lavoro che l’insegnante presta gratuitamente. Ci sarebbe ampio materiale per rispolverare l’alienazione di marxiana memoria.
Ora, è chiaro che in un mondo ideale la cultura dovrebbe girare liberamente, senza barriere, soprattutto a scuola. Ma è altrettanto chiaro che il lavoro va ricompensato, sia moralmente che economicamente. Quindi capisco le critiche, ma anche io, se scrivessi un mio manuale, sarei in imbarazzo: un conto è lavorare per mesi per i miei studenti, verso i quali ho delle responsabilità che vanno oltre il dovere minimo imposto dalla professione, un conto è lavorare per i colleghi. Perché, diciamolo: il problema non è passare le proprie dispense agli studenti di mezz’Italia, ma passarle ai professori che non hanno voglia di scriversele da soli. Egoismo? Misere beghe da sala insegnanti? Probabilmente sì, ma è inutile far finta che non esistano.
Mi si dirà: non ci sarà la ricompensa economica, ma c’è pur sempre il prestigio, la ricompensa morale. Belle parole: peccato che nella scuola, tra i docenti, sia diffusa la cattiva abitudine di “prendere in prestito” documenti altrui senza citare la fonte, e riciclarli come dispense anonime. Insomma, nel 90% dei casi l’ebook scolastico, soprattutto se diramato senza le adeguate protezioni (DRM e simili), perderà l’autore per strada.
Una soluzione, forse, però ci sarebbe: ogni professore ha un approccio personale agli argomenti che tratta, approfondisce di più certi temi e va veloce su altri, preferisce spiegare una cosa invece di un’altra e così via. Non a caso i professori, tutti i professori, si lamentano costantemente del libro in adozione, anche quando l’hanno adottato loro, proprio perché non si adatta al loro modo d’insegnare. E allora, come detto, l’unica soluzione è che ogni professore si faccia le sue dispense da sé: certo, non sarà una pratica sociale e 2.0, ma stante la situazione è forse l’unico metodo che può realmente funzionare. E che darebbe nuovo senso e nuova professionalità ai docenti.