La retorica vincente, l’enigma Beppe Grillo e Machiavelli

[dropcap] C [/dropcap]omplice un’influenza che mi sta tenendo bloccato a casa da domenica (e ha fatto sì che mia moglie tenesse i bimbi alla larga da me), ho seguito con grande attenzione lo spoglio e la scoperta dei sorprendenti esiti delle consultazioni elettorali. Avrei quindi voluto scrivere un post molto articolato, in cui parlare degli errori del PD, dei dubbi sulla governabilità, della sorpresa Berlusconi, degli scenari futuri e futuribili e così via. Ma alla fine, a furia di vedere tutti i commenti che si accavallavano su Facebook e Twitter, non ne ho più avuta molta voglia: ognuno, in Italia, la pensa come vuole – cosa più che legittima – e non sta ad ascoltare quello che hanno da dire gli altri – e su questo ho le mie remore. Grillo accomuna il PD e il PDL in un unico pastone, gli elettori del PDL vedono il PD come il male assoluto e, viceversa, gli elettori del PD fanno lo stesso con Berlusconi.
E allora, le riflessioni che mi va di fare sono solo due.

La prima: da vent’anni a questa parte, e anzi in maniera più netta man mano che passava il tempo, è cambiato il modo di fare politica, radicalmente. Se confrontate una tribuna elettorale di venticinque anni fa, o un comizio di trent’anni fa, con il discorso di un politico di oggi c’è un abisso, soprattutto se pensate a Berlusconi o Grillo. Un abisso sotto diversi punti di vista, solo in parte ascrivibile agli anni passati: se conducete lo stesso paragone usando un politico americano del 1983 e un discorso di Obama di oggi non troverete le stesse differenze che si trovano in Italia, ma molte meno; lo stile, gli atteggiamenti, le strategie comunicative in America sono rimaste bene o male le stesse, solo un po’ svecchiate.
In Italia, invece, tutto è cambiato. Paragonate un Berlinguer, che pure è stato un leader molto amato, e un Grillo: sembrano due persone che fanno un lavoro completamente diverso (e Bersani assomiglia nettamente più a Berlinguer che a Grillo).
Cos’è cambiato, quindi, da allora a oggi? Di mezzo c’è stato Berlusconi, c’è stata la tv commerciale, ci sono stati i talk show e i one-man-show. Ma non è solo questo. Inizio a pensare che questa non sia nemmeno la causa, ma piuttosto l’effetto: non è stato Berlusconi a cambiare la politica, ma gli italiani. Com’erano gli italiani fino all’inizio degli anni ’70, dal punto di vista politico? Erano dei fedeli elettori, che davano il loro voto al partito di riferimento, che era la loro guida indiscutibile; si fidavano delle linee politiche, delegavano, sicuri che la loro preferenza fosse ben riposta. Si votava sostanzialmente per classe sociale, e non a caso i risultati delle elezioni erano piuttosto prevedibili, scossi solo – nel lungo periodo – dal ricambio generazionale.
Poi ci sono stati gli anni ’70, la contestazione, gli estremismi giovanili; e poi ancora, dieci o quindici anni dopo, Tangentopoli; ed è cambiato tutto. Gli italiani hanno iniziato a pensare che quei politici a cui avevano affidato il loro voto non fossero degni di loro. Hanno scoperto che l’Italia non era il paese delle meraviglie, ma un luogo in cui ognuno faceva i propri interessi a scapito spesso degli altri. Gli italiani hanno iniziato ad odiare i loro politici, a scaricare su di loro (e spesso a ragione, non nascondiamolo) le responsabilità di ciò che non funzionava in Italia. I politici della DC, che prima erano tutto sommato rispettati anche se osteggiati dalla sinistra, venivano attaccati dai giovani nelle piazze e nei muri (a volte, purtroppo, perfino gambizzati o uccisi), e nemmeno gli esponenti del PCI se la cavavano meglio. Al di là dei motivi contingenti, nel lungo periodo la figura del politico in Italia ha perso ogni sacralità, un percorso che è continuato, per motivi diversi, con gli scandali finanziari e la corruzione degli anni ’80. A questo punto – e dopo una gestazione lenta e travagliata – è arrivato il nuovo modo di far politica. In primis Berlusconi e Bossi, coi loro slogan semplici. Poi, ora, Grillo, con slogan spesso opposti, ma allo stesso modo attrattivi. Slogan, parole d’ordine, che hanno creato nei loro sostenitori un’attesa quasi salvifica e un odio diffuso, sia dei sostenitori verso gli altri, sia degli altri verso i sostenitori.

E allora, vedete, non è che Berlusconi, Bossi e Grillo, che hanno “rubato”, in tempi diversi, elettori che in passato erano tipici del PCI, abbiano cambiato il modo di far politica. Semplicemente hanno capito cos’era che gli italiani volevano sentirsi dire. E quello che gli italiani volevano – e al 75% pare vogliano ancora oggi – è non sentirsi in colpa. Ciò che accomuna questi movimenti non è la retorica, ma la retorica deresponsabilizzante. Per decenni la Lega ha basato il suo consenso sull’idea che i mali del nord derivassero da Roma o dagli immigrati; Berlusconi ha incolpato lo Stato delle manchevolezze delle imprese italiane o la Germania e Monti delle politiche di austerity; Grillo, ora, dà tutta la colpa della crisi economica e sociale al PD e al PDL. Vedete, è questo che mi spaventa: il tentativo di trovare un colpevole, di dar la colpa a qualcuno. Non è mai colpa nostra, o non è mai una colpa diffusa che ci colpisce tutti, ma è sempre colpa di qualcun altro. È chiaro che i problemi esistono: c’è uno Stato che chiede troppe tasse, ci sono imprenditori che fanno un’enorme fatica, ci sono politici che rubano. Ma imputarli ad un’unica causa è una semplificazione propagandistica. È il pensiero di Carl Schmitt, puro e semplice: basare la politica sulla contrapposizione amico-nemico; individuare un avversario, caricarlo di tutte le colpe deresponsabilizzando contemporaneamente la propria schiera, scatenando così un senso di appartenenza che porta all’esaltazione del leader.

La seconda riflessione riguarda il Movimento 5 Stelle, che per me rimane un’incognita clamorosa. Al suo interno ci sono parecchie cose encomiabili, alcune cose preoccupanti e tutta una serie di altre cose di cui si sa poco o nulla. Tra le encomiabili metterei molti punti del programma, l’entusiasmo e la partecipazione disinteressata dei militanti, la spinta che può avere sulla politica tradizionale; tra gli aspetti preoccupanti, il ruolo di Grillo (e spiegherò poi perché); tra ciò che è ignoto i loro reali, concreti e pragmatici programmi per il futuro. Sono anni che diciamo che chi viene eletto deve dire ben prima con chi ha intenzione di allearsi e cos’ha intenzione di fare, eppure appena hanno conseguito il loro ottimo risultato elettorale non c’è stato un solo grillino che avesse una benché minima idea di come concretamente mettere in pratica le loro nobili intenzioni. L’intervista tipica, che ho visto ripetere su diverse emittenti a numerosi diversi eletti del M5S è stata la seguente:
– Adesso con chi vi alleerete?
– Con nessuno, noi siamo contrari agli inciuci.
– E se il PD dovesse chiedervi l’appoggio su alcune iniziative che condividete?
– Noi siamo disponibili a lavorare assieme agli altri valutando legge per legge.
– Sì, ma per far stare in piedi una legislatura bisogna prima dar la fiducia a un governo. La dareste, la fiducia, a un governo che si proponga di mettere in pratica alcuni punti del vostro programma?
– Ehm… Noi siamo disponibili a lavorare assieme agli altri valutando legge per legge.
– Sì, ho capito, ma la fiducia?
– La fiducia? Cioè… Noi siamo disponibili a lavorare assieme agli altri valutando legge per legge.
– Vuol dire che al Senato potreste uscire al momento della votazione?
– Noi… Noi siamo… disponibili… a lavorare assieme agli altri… valutando legge per legge.
Largo ai giovani, per carità, ma almeno che abbiano le idee chiare in testa. Quello che mi sembra è che questa esagerata esaltazione della democrazia diretta (su ogni decisione, dal presidente della Repubblica al singolo regolamento, bisogna prima indire un sondaggio online) sia un po’ pericolosa, per due motivi:
1) io voglio dei politici preparati, che sappiano anticipare le opinioni della massa e, quando serve, fare anche scelte impopolari; il buon politico non è quello che, privo di qualsiasi personalità, obbedisce in tutto e per tutto al proprio elettorato, ma quello che sa ascoltare ma anche guidare il proprio elettorato, spiegandogli alcune sue visioni che l’elettore medio ancora non ha colto né capito. Di un politico senza idee, senza carattere, senza un’autonomia di giudizio io non me ne faccio nulla (e, scusatemi, ma gli eletti del Movimento in questi giorni sono sembrati tutti fatti con lo stampino, intenti a ripetere la solita pappardella che manco nei regimi più totalitari… perfino nel PDL c’è più autonomia di vedute);
2) finora, tutti i tentativi storici di reale democrazia diretta sono sempre falliti non tanto per problemi tecnici – che oggi sarebbero in buona parte superati dall’avvento della rete – ma perché quando il popolo è libero di decidere tutto, giorno per giorno, senza nessuna intermediazione che ne rallenti l’impulsività, la democrazia tende sempre a scivolare nella demagogia. Se n’erano accorti già nell’Atene del V secolo a.C., dove comunque la democrazia era un concetto molto più limitato del nostro, eppure a tutt’oggi c’è ancora qualcuno che fa finta di non saperlo.

Già cinquecento anni fa Machiavelli nel Principe scriveva:

perché un principe che può fare quello che vuole è un pazzo; un popolo che può fare ciò che vuole non è savio

Ma queste sono solo incognite, come ho già detto, che potrebbero dissiparsi già nelle prossime settimane. Può darsi benissimo che all’interno del Movimento prevalga un senso di responsabilità generale (a scapito del vantaggio elettorale che per loro potrebbe concretizzarsi in nuove elezioni a brevissimo termine) e che quindi si formi un governo del PD col loro appoggio esterno. Io lo spero, sarebbe la volta buona per cambiare qualcosa.
Quello che mi preoccupa, invece, è il ruolo di Beppe Grillo. Non tanto per lo stile che usa nei suoi comizi (quello, come detto sopra, è retorica da manuale, classico modo per racimolare consenso in fretta… un modo certo violento e aggressivo, ma che accomuna molti movimenti anche di sinistra in giro per il mondo), quanto per questa tanto esaltata forma di democrazia dal basso, come se il blog fosse lo strumento del futuro. Non è così, il blog non è uno strumento partecipativo. Certo, su un blog si può commentare e attorno a un blog si forma una comunità di fedeli, di appassionati, di militanti; ma il blog è una forma di comunicazione verticale, in cui c’è uno che scrive e ci sono gli altri che leggono. Non è un forum, non è un social network: è un blog, cioè un giornale che invece di essere stampato su carta è impresso su internet. L’opinione del militante comune non ha nemmeno lontanamente lo stesso peso di quella di Grillo, non scherziamo. Dirò di più: il blog è pure peggio di un giornale. Perché un giornale gira, passa di mano in mano, e, a meno che non sia un giornale di partito sovvenzionato dallo Stato, per vendere e quindi sopravvivere deve per forza ospitare opinioni diverse, ammettere un certo pluralismo al proprio interno. Un blog non ha bisogno di tutto questo. Il blog non ha bisogno di confrontarsi col mondo esterno, il blog in sé è un microcosmo; e il blog di Grillo, in particolare, è un microcosmo chiuso. In questi anni ci sono finito tante volte, e negli ultimi giorni sono andato spesso a curiosare: al di là dei contenuti dei vari post, che di volta in volta si possono condividere oppure no, quando si entra in quelle pagine – per lo stile così dogmaticamente antagonista e il modo di porsi – pare di entrare in una ipotetica sede del PCI del vecchio Veneto bianco, con i ritratti di Stalin appesi alle pareti, dove non si siano accorti che è caduto il muro di Berlino: ci sono i messaggi del “grande e magnifico leader”, che rivelano verità sul mondo che tutti i “porci (capitalisti)” vogliono tenerci nascoste, e ci sono i commenti perlopiù adoranti degli adepti (e quando non sono adoranti sono dei soliti infiltrati o venduti), contornati da manifestini, pubblicità e iniziative di propaganda che fanno capo al Movimento e a Grillo stesso. Un colossale circolo vizioso dove tutte le idee proposte dall’alto finiscono per diventare indiscutibili e sante, dove regna un clima direi anche greve, di chiusura. Questo perenne richiamo al complottismo (“ecco quello che non vogliono farvi sapere!”), questa chiusura, questa non criticabilità del leader rendono il blog qualcosa di simile più ad una setta che a un moderno movimento politico, ed è questo l’elemento che bisogna tenere sott’occhio con maggior attenzione. Ora, sia chiaro: gli elettori del Movimento, quel 25% di italiani, sono in minima parte frequentatori del sito: la maggior parte sono delusi che hanno trovato in questa proposta politica qualcuno a cui affidare, momentaneamente, le loro speranze. Sono convinto che la stragrande maggioranza di chi ha votato Grillo sia pronto a tornare a votare i partiti tradizionali, se questi decidessero di darsi una regolata, di cambiare, di rinnovarsi. Ora sta a Grillo scegliere se vuole diventare un leader serio o il capo messianico di una ennesima setta politica. A giudicare dal post di oggi, sembra propendere per la seconda (e i giornali dicono che la base si ribella, ma se leggete i commenti si tratta di pochi “elettori dell’ultim’ora” o, appunto, infiltrati).

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