Nel 1992, ne Il secondo diario minimo, Umberto Eco pubblicò un breve ma gustoso divertissement in cui raccontava di aver incrociato per caso a New York l’attore Anthony Quinn. Scriveva di non averlo riconosciuto subito, ma di aver pensato che quella persona fosse un parente, un amico di cui al momento non ricordava il nome, e questo spunto serviva a Eco per parlare della difficoltà che a volte abbiamo nel distinguere la realtà dalla finzione, soprattutto quando poi personaggi noti della fiction compaiono vivi e vegeti davanti ai nostri occhi. Così il filosofo piemontese continuava il suo racconto riportando alcune esperienze capitate a suoi conoscenti diventati famosi grazie alla televisione: l’aspetto più comune di queste esperienze era che quando questi volti noti incrociavano – al bar o all’edicola – le “persone comuni”, queste ultime parlavano del VIP come se questi non fosse lì davanti a loro ma continuasse ad essere un volto su uno schermo. Per esempio, per queste piccole celebrità era comune sentire frasi del tipo “Ma è proprio lui?”, oppure “In tv sembra più grasso” e così via, dette a voce alta senza curarsi che la persona di cui si stesse parlando sentisse oppure no queste frasi.
Eco vent’anni fa si stupiva del fatto che davanti a un individuo non famoso le stesse persone si sarebbero comportate in maniera molto diversa, cioè educatamente; magari avrebbero detto le stesse cose ma sussurrandole nell’orecchio dell’amico, stando bene attenti a non farsi sentire dall’oggetto del discorso.
Mi sembra che una cosa molto simile avvenga oggi anche coi social network: lo schermo del computer o del cellulare, più ancora dello schermo televisivo, ha tolto quella patina di timidezza e, diciamolo pure, di educazione, e oggi le persone normali si rivolgono ai VIP con parole di fuoco, critiche aspre, a volte perfino imprecazioni, offese e parolacce. Molti sono i casi di personaggi televisivi che se ne sono andati da Twitter sbattendo la porta e dimostrano che c’è ancora una forte difficoltà a comprendere e gestire il fenomeno; perché quelle stesse persone che lanciano improperi e parolacce contro il giornalista, il politico o l’attore di turno sono persone che, ne sono convinto, dal vivo non farebbero niente di tutto questo: probabilmente ignorerebbero il VIP, in alcuni casi proverebbero anche una certa emozione, magari chiederebbero perfino un autografo o di fare una foto assieme.
Tutto questo mi ha fatto pensare alle mie stesse abitudini e a come si sono evolute negli ultimi anni. Sono cresciuto in una famiglia in cui si scherzava molto. O, meglio, in una famiglia che trovava divertenti le mie battute. Ho iniziato prendendo in giro i miei genitori, con quelle frasi che sono più segno di intesa che di derisione: a mia madre ricordavo la sua grazia nel fare le cose, come quando tirava giù i lampadari spolverandoli o apriva varchi nelle porte bussando; a mio padre proprio l’altro giorno, per fare un esempio, ho rinfacciato uno sguardo inquietantemente allupato nelle foto del suo primo ingresso in casa dopo il matrimonio, foto che stavamo sfogliando con i pupi. Un tipo di scherzo che, mi pare, hanno nel sangue anche i miei figli, se è vero che ogni sera la pupa va a dare un bacino al pancione della mamma per salutare il fratellino in arrivo e poi viene a dare un bacino alla mia pancetta, chiedendomi: «E il tuo quando nasce?» e poi scappa via ridendo.
«Papà, come sta il bimbo nella pancia della mamma?» «Bene, pupa». «E quello nella pancia tua?» Neanche 5 anni e già mi sfotte per la panza.
— Ermanno Ferretti (@scrip) 7 Gennaio 2015
Nel corso dell’adolescenza, questa naturale predisposizione all’ironia si è trasformata in sarcasmo, perlopiù verso il mondo esterno. Io ed i miei amici – forse perché ci sentivamo superiori, per istruzione e capacità, all’italiano medio, o forse perché eravamo semplicemente degli sfigati che cercavano di darsi un tono – eravamo feroci con tutto il mondo al di fuori di noi: prendevamo in giro le canzoni dei cantanti che andavano di moda, i programmi televisivi che facevano i grandi ascolti, i coetanei “di successo” ma falsi o stupidi. Non avevamo un palcoscenico o una tribuna in cui portare tutto questo sarcasmo; ce lo spiattellavamo tra noi, quasi in una sorta di codice tra iniziati.
Per molto tempo, questo mio atteggiamento non mi diede alcun problema. In casa si poteva tranquillamente deridere la pop star di turno, perché tanto si ascoltava tutta musica di un certo livello; così come non si risparmiavano battute al vetriolo su soubrette e simili, abituati come eravamo a discutere a cena dei film di Fellini e di fisica quantistica (cosa che non mancò di impaurire la mia futura moglie la prima volta che venne a cena da noi, tanto che, riportandola a casa, continuava a ripetermi: «Ma dove mi hai portata? Dove cavolo mi hai portata?»). D’altro canto, anche le mie passioni e i miei vizi erano sovente oggetto d’ironia: mio padre per anni se l’è presa coi miei amati De Gregori e Nanni Moretti, quindi diciamo che in casa mia si colpiva e si veniva colpiti senza ritegno.
Pure coi miei amici il sarcasmo non era mai stato un problema: tra maschi, in genere, soprattutto a quelle età, si possono demolire i miti altrui senza nessun problema; è tutto un reciproco sfancularsi, senza che nessuno se la prenda mai veramente.
I primi problemi arrivarono quando cominciai, come molti adolescenti, ad uscire con qualche ragazza. Perché le ragazze, o almeno molte di esse, non erano così propense a stare al gioco, a farsi demolire i miti. Di più: la prendevano sul personale. Se tu facevi una battuta su quanto era piena di luoghi comuni la nuova canzone di Tizio, queste ragazze fan di Tizio si arrabbiavano, si offendevano, come se tu avessi detto una parola cattiva su di loro. In parte avevano anche ragione: deridere le loro passioni significava deridere i loro gusti, e deridere i loro gusti significava deridere la loro intelligenza. Ma io ho sempre inteso l’arma dell’ironia come un’arma a doppio taglio: io davo il mio colpo ed ero sempre pronto a prendere un colpo in cambio. Non a caso, ancora oggi, non passa giorno che non prenda in giro (con toni lievi) mia moglie, i miei pupi, i miei studenti, ma anche loro sanno di poter fare lo stesso con me (anche se a volte ai ragazzi bisogna chiarire cosa sono i toni lievi).
Insomma, al di là di alcune fidanzate esageratamente permalose, sono cresciuto nel mito e nella convinzione che l’ironia fosse una delle parti più belle della vita, che fosse ciò che ci permetteva più facilmente di esprimere un’opinione, di smascherare la retorica che sempre si annida dietro ad ogni forma di comunicazione, di gustare il lato divertente delle cose. E, in questo senso, anche l’ironia aggressiva, l’ironia “cattiva” andava bene: tanto era diretta verso persone che non conoscevamo e che non conoscevano la nostra opinione su di loro.
Poi sono arrivati i social network, ed è cambiato tutto. Due cose sottolineerei in particolare: in primo luogo, per ogni attore o scrittore che si voleva deridere c’erano adesso, inevitabilmente, schiere di fan assetati di vendetta, ma, cosa ancora peggiore, ora perfino la persona derisa poteva leggere quello che scrivevi su di lei e minacciare querela, additarti al pubblico ludibrio e altre cose del genere; in secondo luogo, noi soggetti sarcastici ci siamo resi conto di non essere persone così uniche, intelligenti e ironiche come pensavamo, visto che di persone col nostro senso dell’umorismo (e con molta più cattiveria) sono piene le timeline dei social network.
Anzi, l’ironia cattiva – e sempre più diretta verso gli altri e sempre meno verso se stessi – è ormai l’elemento cardine di social network come Twitter. Il guaio è che non è più un’ironia innocua, che non fa male a nessuno: è un’ironia in cui si taggano le persone che si vuole deridere, per far loro sapere il nostro disgusto nei loro confronti; è un’ironia che se la prende volentieri anche coi soggetti più deboli, o più scontati; è un’ironia che mi pare a volte troppo facile, troppo gratuita, troppo cattiva.
I miei tweet su politici, attori, perfino scrittori ormai si contano sulle dita di una mano. Resistono, di tanto in tanto, quelli su Fabio Volo, su Massimo D’Alema e su pochi altri, perché sostanzialmente non hanno fan (o la gente che in realtà li segue fa finta di non seguirli) ed è quindi difficile che qualcuno si senta offeso. Ma per il resto, ho smesso. Perché? Da un lato perché ho sempre odiato chi deride le persone per il gusto di far loro del male, siano essi l’ultima ruota del carro o i più ricchi del pianeta. Dall’altro, perché l’eccesso di ironia, l’eccesso di presa in giro, l’eccesso di sarcasmo non aumentano le risate, ma le fanno diminuire: se una persona se la prende con un VIP è simpatico, se se la prende con tre VIP è acuto, se se la prende con venti è un po’ rompicoglioni e se se la prende con tutti i VIP che abbiano mai avuto un benché minimo successo è solo un fallito. Questa è la verità: ci sentiamo grandi a prendere per il culo il cantante indie che per una volta ha fatto una canzone che funziona, lo scrittore che è riuscito a pubblicare un romanzo, il fumettista che ha un certo seguito. Insomma, sfottiamo tutti senza ritegno, senza pause, senza pietà, e crediamo che questo ci renda persone superiori, eletti, spiriti liberi.
No, siamo solo dei coglioni.